EMERGENCY: CENTINAIA
DI FERITI A LASHKAR GAH
“Non chiediamo il ritiro
delle truppe italiane.
Non siamo degli scia –
calli, per riprendere le
parole del ministro La Russa.
Sappiamo quanto sia complessa
la situazione”. Cecilia Strada,
presidente di Emergency, è rientrata da pochi giorni da Kabul
“una città inquinata, caotica, contraddittoria. Schermi al plasma nelle strade, Suv, carretti trainati da asini, donne con il burqa. Ma sono le province a essere nel caos. Emergency è consapevole della difficoltà della situazione e non sposa una posizione ideologica. Però vuole che le cose cambino”.
Cosa chiedete al governo?
Di pretendere chiarezza da parte dei propri alleati e di fare un’analisi di realtà. Sul primo punto, Frattini deve chiedere spiegazioni dettagliate sulle
trattative in corso tra Karzai e i talebani. Sul secondo punto, chiediamo all’Italia di investire in maniera diversa i milioni di euro spesi per una missione militare che non sta risolvendo nulla. Parlare semplicemente di
ritiro non ha senso, ma analizzare la realtà è fondamentale per capire come uscirne. Tanto più che anche ieri mattina quattro madri si sono svegliate con un figlio morto.
Come andrebbero investiti i soldi?
Per migliorare la vita della popolazione. Gli americani hanno detto che bisogna “c o n q u i s t a re le menti e il cuore degli afghani”. Non sta accadendo. La vita dei civili non migliora. Nei primi sei mesi del 2010 l’Italia ha speso 306 milioni di euro per il mantenimento della missione.
Nel secondo ne spenderà 390: siamo sicuri che investire sull’istruzione, sul lavoro o per la cooperazione non darebbe risultati più costruttivi? Molti afghani sostengono i talebani perché danno loro sostentamento.
Ci sono soldati afghani che guadagnano così poco da “af fidarsi”
ai talebani, facendo il doppio gioco. Conosco giovani medici che fanno lavoretti per gli occidentali perché guadagnano di più. Ma aiutare quei ragazzi a fare i medici significherebbe aiutare veramente quel Paese.
Ma ormai cosa significa rendere “stabile” l’Afghanistan?
Liberarlo dai talebani? Realizzare una piena democrazia?
Se l’obiettivo è realizzare una vera democrazia, con un Parlamento
ed enti locali efficienti, rimarremmo in Afghanistan mille anni. Pensare di portare le nostre strutture politiche in un Paese in cui, al di fuori delle
grandi città come Kabul o Herat, le decisioni vengono prese nei consigli tribali degli anziani, è assurdo. Se siamo lì a combattere il terrorismo, allora è evidente che stiamo fallendo. La situazione è peggiorata negli anni,
perché la presenza dei guerriglieri è sempre più massiccia in Pakistan. In ogni caso, dai nostri ospedali osserviamo un dato incontestabile: il numero delle persone che vengono a curarsi è costante. Non è cambiato niente.
La zona in cui sono morti i soldati italiani non è distante
da Lashkar Gah, dove a luglio è stato riaperto il vostro centro.
Com’è la situazione?
Ad agosto e settembre sono arrivati 309 feriti di cui 106 sotto i
14 anni. Perfettamente in linea con l’anno precedente. Ripeto:
nulla è mutato. La situazione in quell’area è devastante. Siamo
in pieno regime di guerra ma anche a Kabul il nostro ospedale è
sempre pieno. Non stiamo conquistando i cuori della gente.
Ma, come ha detto anche Petraeus, per ogni civile ucciso nasce
un nuovo talebano.
E i contractors? Sono molti?
A Kabul oggi ci sono meno soldati di qualche anno fa e molti più contractors. Quello delle agenzie private per la “sicurezza” è un fenomeno che non contribuisce a dare ordine al Paese. La privatizzazione della guerra,
se possibile, è il massimo della degenerazione, perché questi agenti non devono rispondere a nessuna regola di ingaggio. Militari, contractors, una popolazione povera e minacciata, i soldati che muoiono: dopo nove
anni di guerra, la situazione afghana non migliora. Andarsene e basta non ha senso. Ma è davvero arrivato il momento di capire cosa stiamo facendo e perché.
di Elisa Battistini – Il Fatto
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