“Quello che abbiamo iniziato non può essere fermato”, ha detto ieri fra la folla il premio Nobel El Baradei. Sono migliaia le immagini, i volti, le parole che ci arrivano in questi giorni dall’altra sponda del nostro mare, ci colgono seduti davanti agli schermi di computer e tv: un bambino che passa di mano in mano, due donne velate che sollevano cartelli, un vecchio con gli occhiali rotti, il sangue e la speranza, i dubbi sul futuro e la voce tonante dall’America, le famiglie dei dittatori in fuga, già a Londra o a Parigi, loro sì già in salvo coi loro bauli preziosi. Ne scrive oggi per noi Issandr El Amrani, dal Cairo: racconta uno spaccato della fuga precipitosa dei tiranni. Un effetto domino velocissimo, che in dieci giorni è stato capace di attraversare i confini dei paesi come un’onda, come un unico vento. Molto, moltissimo ha fatto la Rete. Ve ne abbiamo parlato tanto in questi giorni, vi abbiamo spiegato come, chi. Oggi Mike Giglio, reporter di Newsweek, torna a dirci nel dettaglio quale sia stata la funzione di Internet, capace di superare ogni censura. Gabriele Del Grande racconta la storia di Soufien Balajj, il blogger che ha dato il via alla rivolta tunisina. Di quel che accade in queste ore nelle strade del Cairo vi racconta Robert Fisk, uno dei più grandi reporter di guerra. Noi leggiamo, ascoltiamo, guardiamo.
Un piccolo vento, una brezza si sta levando anche qui. Basterebbe che fosse un soffio costante. Basterebbe il risveglio della consapevolezza di quale sia stato l’inganno di questi anni di dittatura mediatica: il dolce soporifero regime che ha sterminato cultura e coscienza. Anche da noi la rivolta corre in rete, poi – vedete – a volte arriva in strada.
Dieci giorni fa abbiamo fatto appello a tutte le donne italiane. In pochi giorni hanno risposto in settantamila. Diecimila erano in piazza a Milano, giornali come Il Secolo e Famiglia cristiana suonano la stessa musica. La destra del Capo invece teme la piazza, schiera i suoi quotidiani a denigrare chi manifesta ancora una volta con il logoro e bugiardo slogan, “tutti uguali, tutti a casa”. Non è così, non siamo tutti uguali, urlare tutti colpevoli nessun colpevole non basta più, l’inganno è svelato. C’è un nuovo rischio, però: anche questo un antico vizio. E’ la guerra a chi è più puro, a chi è arrivato prima, a chi è stato più bravo e l’ha detto più forte. La guerra nella stessa metà campo, questa volta a colpi di piazze.
Noi, lo diciamo adesso, andremo in tutte le piazze dove si manifesti per qualcosa in cui crediamo: chiunque le abbia convocate, se l’abbia fatto prima o dopo qualcun altro. Andremo, come siamo stati sabato a Milano, il 5 con Libertà e Giustizia e il 13, naturalmente, con tutte le donne d’Italia. Proviamo ad avere rispetto della gente che ce lo chiede, provate a stringere la mano del vicino anche se non è proprio del vostro stesso sangue. E’ di parlare agli altri che abbiamo bisogno: di parlare, insieme, a tutti. Allora e solo allora quel che così sarà iniziato non potrà essere fermato.
Da L’Unità del 30 gennaio 2011.
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