Atlantico nordoccidentale, VI giorno. Mare calato, insieme al vento. Sono trenta ore che navighiamo con spinnaker, trinchetta e due rande. 9-10 nodi di speed. Continuiamo a procedere per 300 gradi, anche se stanotte il vento è girato a est-nordest costringendoci ad alzare la prua fino a 320°. Le previsioni sono sbagliate, quel che dovremmo trovare è un sudest da una quindicina di nodi. Dovremo procedere in base a quello che troviamo. In ogni caso, dopo quasi 1000 miglia di navigazione abbiamo ancora 1800 miglia davanti prima di New York. Non siamo messi male, ma acqua davanti ce n’è. A bordo si parla, si discute. Difficile farlo su tutto. Alcune posizioni sono decisamente agli antipodi e forzare sui temi, in uno spazio ristretto, per molti giorni, non ha senso. La differenza delle personalità e delle impostazioni, tuttavia, è sempre fertile. Suscita riflessioni, mette in risalto i temi. Eccone uno, frutto della navigazione notturna.
Su simboli e ruolo
Simboli e ruolo non sono veri. I primi servono a mostrare qualcosa che, senza, non si vedrebbe, per il semplice motivo che non c’è. Il secondo, in modo del tutto identico, serve a rappresentare qualcosa che, senza quei galloni sulle spalle, non apparirebbe. Senza quella divisa sarebbe impossibile.
Entrambi sono collegati al concetto di qualità. Con quel simbolo al polso o quell’automobile, la qualità di una persona aumenta. A volte appare dal nulla. In quel ruolo una persona viene rispettata, considerata, di lei si parla. O almeno pare definita da una qualità specifica. Aumentata rispetto alla realtà.
Non è sbagliato che ci si avvalga di simboli. Anche un orecchino per un marinaio è un simbolo. Ma non è grave. La cosa seria è che oggi assistiamo al paradosso del capovolgimento: il simbolo è diventato un fine, dotato di valori che non ha.
Ogni volta che vedo un uomo in un certo ruolo, penso sempre: fuori da quella divisa, che uomo sarebbe? Me lo sono chiesto in questi giorni osservando Giovanni Soldini, dandomi un’ottima risposta. Anzi, mi sono accorto (come sempre capita per le persone molto in gamba) che il suo ruolo rischia di sminuire l’uomo che lo interpreta.
Mi diverto anche a spogliare la gente dei suoi simboli. Mi piace togliere di dosso orologi, abiti, o dalle mani telefoni e computer. Mi capita spesso di levare da sotto il sedere della gente le loro automobili, le case, i giochi. Cerco sempre di capire cosa c’è dietro, cosa c’è sotto, senza metafore, senza ausili simbolici. L’uomo o la donna che sono, che sarebbero dovunque e comunque.
La maggior dote del simbolo e del ruolo è che accorciano la via.
E’ più facile trovare un lavoro o fare carriera per apparire potenti che non diventare realmente tali. Ciò che affascina del ruolo non è altro che la considerazione che produce, il potere di attrarre attenzione, di generare palliativi di affetto, amicizia, amore. Più amore di quanto sapremmo garantirci senza quel ruolo, senza quel simbolo. Tentare la via del ruolo e del simbolo è, in fondo, una testimonianza di quanta poca considerazione abbiamo di noi stessi. Siamo talmente convinti di non valere granché che ci affanniamo a coprirci di simboli, a interpretare ruoli, pur di valere qualcosa.
Simboli e ruolo non vanno rifiutati per questo. Come sempre, non c’è un nemico cattivo, ma un cattivo uso di noi stessi e della realtà. Però io mi chiedo continuamente il perché di ciò che faccio. Ogni volta che uso qualcosa come un simbolo o che interpreto un ruolo, vorrei essere sicuro di saperlo. Pensare di essere quel simbolo o di essere quel ruolo, non essendo vero, essendo io altro (di meno o di più, poco importa), mi spiacerebbe molto.
Da simoneperotti.com
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