Venivano dall’Algeria, dal Mali: “Gheddafi ci dava 200 euro a settimana”.
Ayed quasi lo nascondono. E’ il più piccolo, quattordici anni appena. Abitava al confine con l’Algeria, ma l’hanno preso qui con i mercenari del colonnello Gheddafi. «Io non ho fatto niente», si lamenta lui. Non aggiunge altro, in questa scuola elementare diventata prigione deve aver paura anche delle sue parole. Si volta subito verso il muro, gli altri prigionieri ragazzini, chi quindici, chi sedici anni, lo proteggono. Lungo cinquanta passi e largo venti, il refettorio dei bambini di Tajura è diventato la loro cella. Un camerone pieno di 375 detenuti, vestiti con un pigiama azzurro o rosa. Chi ha sparato, chi ha ammazzato, chi ha fatto la spia.
Un lucchetto e una cancellata bastano a rinchiuderli. Un ex ufficiale dell’esercito libico e venti volontari ad improvvisarsi guardiani. «Tutto è cominciato la sera di sabato 20 agosto, quando hanno tentato di occupare Tajura – racconta Mohammed Ghedyani, 31 anni, dentista all’ospedale – Non sapevamo dove metterli e non c’era altro posto che questa scuola elementare». I cessi in fondo allo stanzone sono quelli dei bimbi, i materassi sono pezzi di cartone. Si può entrare solo con il direttore armato di pistola e un volontario armato di frustino. Sono 375, ma c’è silenzio. Chi prega, chi dorme, chi piange di nascosto come Ayed.
Aden Marwan, 43 anni, già colonnello nell’esercito di Gheddafi, apre il grosso lucchetto della cancellata. E’ lui il direttore, anche perché è stato tra i primi ad abbandonare l’esercito, «quando mi avevano proposto la nomina a generale pur di tenermi». E’ lui che chiama i prigionieri, in poco più di una settimana li conosce già tutti. Ecco Adraman, 35 anni, che viene dal Mali. «Sono in Libia da cinque anni, trasportavo acqua. Poi mi hanno promesso tanti soldi, il doppio del mio stipendio, e mi sono arruolato per guadagnare di più. Ma anch’io non ho fatto niente, non avevo armi, solo un piccolo coltello…».
A Taleb, pure lui del Mali, avevano garantito 200 euro a settimana. «Ho accettato e mi suono arruolato un mese fa». Anche lui, giura, non ha fatto niente. «Se è per questo lo dicono tutti -interrompe il colonnello Marwan -, ma a me risulta che quelli che sono qui avevano armi addosso, le abbiamo sequestrate e sono una prova. Poi, a Tripoli, saranno i processi ad accertare le responsabilità e tutti potranno difendersi». Dai letti di cartone si alzano i detenuti, c’è chi si avvicina e Nasser Bashar, 40 anni, sembra agitarsi: «Mi ha denunciato mio cognato, dice che sono un miliziano perché ho litigato con mia moglie!».
Nessuno gli crede e il dentista Ghedyani prova a spiegare perché. «Quando sono entrati a Tajura sapevano dove andare e chi cercare. Qui non ci sono i nomi delle strade, e qualcuno ha fatto la spia. Davanti al Colonnello Marwan non possono dire quello che noi già sappiamo: chi si è arruolato o è diventato delatore per la promessa di una macchina nuova o soldi, tutti convinti di poter diventare come quel mercenario serbo che agli amici ha confidato il suo prezzo, 10 mila euro a settimana per fare il cecchino a Tripoli. Sono sicuro che ce ne sono anche qui dentro, ma non lo diranno mai. E magari sperano ancora nel ritorno di Gheddafi».
A Tajura, appena fuori Tripoli, di questa scuola diventata prigione ne parlano con orgoglio. E’ proprio davanti all’ospedale e i medici si danno il turno per visitare i feriti. Come il dottor Kajri el Gald, che per un anno ha conosciuto le prigioni di Gheddafi: «Ma noi non saremo mai come lui, ora la responsabilità è nostra e dovremo dimostrare di essere capaci e giusti». La sera del 20 agosto a Tajura c’è stata battaglia nelle strade, 71 i feriti nella zona del Mercato del Pesce. «Nessun morto, che io sappia», dice il Colonnello. E quando dall’altoparlante del Muezzin hanno gridato «Arrendetevi!» i mercenari si sono arresi.
L’ufficio del Colonnello Marwan è quello della direttrice della scuola, quattro rose rosse e finte sulla scrivania, alle spalle un murales con Topolino che insegue le farfalle con il retino. Strano posto per parlare di prigionieri di guerra. «Non sono un esperto di carceri, è la mia prima volta e so che posso commettere errori». Però, se la domanda è sulle preoccupazioni di Amnesty International, sulle vendette, sui maltrattamenti dei detenuti, il Colonnello si fa serio: «Noi rispettiamo la Convenzione di Ginevra, questo è sicuro». La prova sarebbe questa cancellata di ferro che adesso si apre sul refettorio. «Seguitemi».
Sdraiati a terra i prigionieri parlano con gli occhi. Disperati come quelli di Ayed e degli altri ragazzini, tutti Tuareg, l’etnia del deserto del Sahra. Hanno capelli cortissimi, quasi fossero marines. Saranno una trentina, tutti stretti l’uno all’altro, impacciati nel pigiama dell’ospedale, impauriti, tremolanti. «Non ho fatto niente». Il refettorio è troppo piccolo, i pigiami con lo stemma dell’ospedale sono finiti, gli ultimi arrivati sono in canottiera. Dormire, pregare, mangiare. E aspettare. Dal 20 agosto è così, non c’è un Gheddafi che possa salvarli. Gli sguardi sono quelli di chi comincia a capire l’inganno.
Circondata da muri di cemento alti tre metri, nella scuola-prigione non c’è aria nell’ex refettorio, e la poca che soffia viene da pagine del Corano agitate nel vuoto. Il Colonnello lo sa: «Stiamo facendo del nostro meglio». Ma da Tripoli dicono che questa scuola dovrà rimanere prigione fino al giorno dei processi. E quando il Colonnello Marwan sta per tornare nell’ufficio di Topolino ecco che Ayed si alza in piedi e lo cerca con i suoi occhi storti. Per lui che «non ho fatto niente» quando sarà il processo? «Non dipende da me». Il lucchetto scatta, la cancellata della prigione torna a chiudersi. Anche sulle illusioni di Ayed.
è una notizia come quella delle 10000 vittime di Bengasi che ora cani porci sanno essere stata una fandonia? Magari nemmeno lo sanno i giornalisti di fare IW!