Nel suo “Village” (Repubblica di ieri) Arbasino ricorda, con desolazione non detta, che la prima volta che udì “applausi al feretro” fu ai funerali di Natalia Ginzburg, “una delle persone più introverse e schive che abbia mai incontrato”. Ho parecchi anni meno di Arbasino, ma gli applausi ai funerali sono uno di quei discrimini che davvero separano le epoche, e le generazioni. L’idea che davanti alla morte si debba rimanere in silenzio, e che il dolore sia inesprimibile (gli addii più intensi, anche al cinema, sono muti o quasi), mi rende insopportabili le ovazioni funebri, tal quali una profanazione.
Ci si abitua, come è giusto, all’indifferenza che i tempi (ogni tempo) riservano alle tradizioni e alle abitudini più care. Il borbottio insofferente e petulante dei vecchi è quanto di peggio i vecchi sappiano esprimere. Ma all’idea che durante i funerali, anche quelli più pubblici e più condivisi, un giorno possa tornare a regnare il silenzio, non riesco a rinunciare. Dovessi indicare un sintomo di guarigione, per la nostra comunità fracassona e irriflessiva, direi proprio questo: un commiato silenzioso dai morti e specialmente da quelli famosi e da quelli amati. Un silenzio tanto più intenso quanto più profondo è il dolore, e pesante l’assenza.
Da La Repubblica del 31/07/2013.
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