Lo scontro
Nasce “Nuovo centrodestra”, conta 30 senatori.
«NON entriamo in Forza Italia. Ci attaccheranno, ma ci difenderemo senza paura», sprona i suoi il vicepremier, con lui gli altri ministri, trenta senatori, 26-28 deputati riuniti nel Palazzo Santa Chiara, qualcuno piange all’annuncio. Schifani si dimette da capogruppo al Senato. È un intero mondo che frana.
Silvio Berlusconi il benservito lo aveva dato già con un messaggio a metà giornata, prima di tuffarsi in una trattativa bluff: «Forza Italia sarà la casa di tutti, chi non ci crede è libero di andare via». In serata, a scissione consumata, davanti ai soliti falchi riuniti a corte tuona contro i “traditori”: «Angelino l’ho creato, adesso lo posso anche distruggere». Salirà oggi sul palco del Consiglio nazionale circondato solo da fedelissimi, falchi, lealisti, “militari” del suo Esercito, aficionados della prima ora, gingle in sottofondo, “Meno male che Silvio c’è”. Nessuno alzerà il dito, «che fai ci cacci». È l’Aventino dei governativi. Da quella tribuna al palacongressi dell’Eur annuncerà di fatto la rottura col governo Letta, nulla ormai li lega, anche se l’apertura di una crisi non verrà formalizzata. Del resto è proprio su quel nodo, il sostegno all’esecutivo dopo la decadenza, che si è consumata l’ultima, definitiva rottura. Oggi sarà un crescendo. «Volete voi che continuiamo a sostenere un governo che ci propina ancora l’aumento della pressione fiscale? Che non ha rispettato il nostro programma? Volete voi che restiamo al fianco di chi ha lavorato per cacciarmi dal Parlamento, per eliminarmi politicamente, d’intesa con i magistrati?» Sono alcuni dei passaggi letti ieri dal Cavaliere a pochi fidati consiglieri. Piena retorica berlusconiana ma la sostanza è chiara. Passaggio all’opposizione della nascente Forza Italia, partito di lotta e basta. Probabile, a questo punto, il voto contrario già alla fiducia sulla legge di stabilità.
«Abbiamo fatto tutto il possibile per garantire l’unità. Hanno prevalso gli estremismi. Sono loro che hanno rotto» sono le conclusioni che invece poco dopo le 20 tira Angelino Alfano, espressione cupa da momento grave e solenne, nella sala nel centro storico di Roma. Davanti a lui, la cinquantina dello strappo. L’assemblea prevista per le 13 slitta fino a sera, nella speranza vana di un ripensamento del Cavaliere. Poi tutto precipita in fretta. «C’è sempre qualcuno che, quando sembra riannodarsi il filo dell’unità, è pronto a reciderlo. Con grande sofferenza ci dividiamo» confessa sconsolato Lupi quando tutto è compiuto, lasciando la sala. Nascono gruppi di sostegno al governo Letta, sufficienti a garantire all’esecutivo una navigazione certo travagliata ma quanto meno non a rischio, sperano. È Formigoni, addetto al pallottoliere in queste settimane, che raccoglie di nuovo le firme poi va in tv a “Otto e mezzo” e annuncia: «Il partito non c’è più, siamo 37 al senato e 23 alla camera». Sembra che in realtà siano qualcosa in meno, forse 30 a Palazzo Madama (su 90) e 26-28 alla Camera, ma cambia poco. Stoppati gli oltre 200 componenti del Consiglio nazionale a loro vicini in procinto di partire da tutta Italia per Roma. L’appuntamento dell’Eur non ha più senso per loro, si sarebbe trasformato del resto in una corrida. E a loro era riservata la fine del toro, infilzati da banderillas al grido di “traditori”. Ed è proprio una dura invettiva contro gli “ingrati” che hanno voltato le spalle la chicca finale del suo discorso fiume alla quale Berlusconi stava lavorando in nottata.
Eppure a ora di pranzo aveva chiamato uno per uno i ministri appena usciti dal Consiglio dei ministri, invitandoli a Palazzo Grazioli. «Ho una proposta da farvi ». Ma Alfano, Lupi, Quagliariello, Lorenzin e De Girolamo decidono di riunirsi prima a Palazzo Chigi, per fare quadrato, il capo li ha delusi ancora, non ha risposto entro mezzogiorno alla loro ultima offerta di mediazione. «Veniamo per un caffè dopo pranzo» risponde freddo Angelino al Cavaliere. Resteranno lì per quasi tre ore. Si imbattono in un Berlusconi all’apparenza trattativista: «Mi rendo conto che il governo non possa cadere, capisco le esigenze della stabilità, l’Europa, i mercati.
Ma io adesso voglio rinnovare il partito. Vi propongo un nuovo patto, la nomina di tre coordinatori, uno dei quali lo designate voi». Non due, dunque, come chiedevano i governativi, ma tre, il loro avrebbe pesato per un terzo, non per il 50 per cento. Alfano non cede. Come non cede sulla fiducia al governo dopo la decadenza. «Perché non ha convocato l’ufficio
di presidenza che le chiedevamo per sancire questi punti? E perché non lo fa ora?» Lui serafico: «Tranquilli, garantisco io». E Angelino: «No presidente, non dubitiamo della sua buona fede ma gli altri vogliono solo terremotarci». Il Cavaliere sostiene che non è così, chiama in loro presenza Verdini che, puntuale, a nome di falchi e lealisti boccia l’offerta: «Noi non ci stiamo». Per i ministri è la conferma, seduta stante, dell’impraticabilità di ogni trattativa. Berlusconi rilancia ancora: «Convoco io l’ufficio di presidenza per questa sera per approvare un nuovo documento di mediazione». Restano a Palazzo Grazioli Gaetano Quagliariello e Nunzia De Girolamo per limarlo, in tre punti: unità nel nome di Berlusconi, sostegno al governo anche in caso di decadenza, tre coordinatori ai vertici di Forza Italia. È a quel punto, nel tardo pomeriggio, che scoppia il putiferio. A Grazioli piombano Fitto, Santanché, Gelmini, Carfagna, Brunetta, Verdini tutti contrari a un nuovo ufficio di presidenza: «Noi non ci presenteremmo ». Arriva anche Ghedini per metterci il carico, «bisogna rompere con quelli». È già sera, Berlusconi allarga le braccia, prende atto. Alfano lo chiama per l’addio: «Presidente mi spiace, io continuo a stare dalla sua parte, ma ormai l’incompatibilità politica con gli altri è incolmabile, con dolore dobbiamo separarci». I ministri annunciano la scissione, i gruppi autonomi dal nome provvisorio di “nuovo centrodestra”. Nunzia De Girolamo è incerta se presentarsi oggi al Consiglio, unico ministro, per votare no. Ma è più una tentazione. Berlusconi ha già confermato, dopo la convention, la sua presenza oggi pomeriggio alla manifestaione dell’Esercito di Silvio. Ormai quasi fuori dal Parlamento, ma per lui è già campagna elettorale.
Da La Repubblica del 16/11/2013.
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