Quelle sei bare in fila nella città sommersa “È l’apocalisse di Olbia”
Ieri i primi funerali. “L’acqua ha inghiottito tutto”
Il racconto
ROMA— Primi funerali in Sardegna dopo le morti per il ciclone di lunedì. Il vescovo di Olbia: «La mano dell’uomo non estranea alla catastrofe». Proclamato il lutto nazionale. I sindaci delle zone alluvionate in rivolta: «Troppi allarmi, siamo lasciati soli».
Non c’è ancora sole sul corpo strappato di Olbia. Un corpo che butta sangue e fango, chinato sul proprio dolore per raccogliere se stesso dalla terra che si è ripresa il suo posto. È pomeriggio, una luce rosastra buca le nubi appoggiate sulla città divelta dall’acqua. Il cuore degli olbiesi è salito a battere sotto il guscio ottagonale del palazzetto del Geovillage, resort per vacanzieri e congressisti e unico spazio al chiuso in grado di contenere la folla, qualche migliaio di persone, accorsa per l’addio alle sei vittime. Sei di sedici, le sei di Olbia (le esequie di altre tre vittime sono state celebrate a Tempio Pausania).
Strazio puro, retorica al minimo. Due piccole bare bianche poste al centro, davanti all’altare. Sono i lettini dell’ultimo viaggio di Enrico e Morgana, cinque anni in due. Il candido legno è coperto da piccoli boccioli e da un lungo applauso, loro ricambiano sorridendo nelle foto, fa un male che brucia dentro. «Il viso disteso di Enrico, sembra addormentato », dice il vescovo di Tempio, Giuseppe Sanguinetti, che celebra il rito pubblico. Enrico e Morgana li ha visti e benedetti a bare ancora aperte, nella chiesa della Sacra Famiglia dove erano esposte anche le salme di Anna Ragnedda e Maria Massa, le nonne annegate in casa.
Siamo nel quartiere Bandinu, uno dei più devastati dal ciclone. Una zona irriconoscibile. Qualcuno, certamente esagerando e c’è da capire, parla di Filippine. I tre anni di Enrico adesso riposano accanto al padre Francesco che faceva kickboxing e lascia la terra indossando la tuta. Nella bara hanno infilato un guantone nero. Aveva mani grandi Francesco Mazzocu, grandi abbastanza per tenere stretto a sé il figlioletto in precario equilibrio sopra un muro poi distrutto dall’acqua che montava da sotto e alla fine ha sciolto il loro abbraccio. Papà fino all’ultimo, per il viso disteso di Enrico. Morgana è composta di là, sul lato sinistro. Accanto alla madre Patrizia. Il corpicino aderisce ai bordi della bara: una collana, il pianto penoso dei familiari. Il padre poliziotto, che viaggiava con moglie e figlia sulla Smart travolta da un fiume di fango e non è riuscito a farle uscire dall’abitacolo, l’altra sera stava tentando il suicidio premendo il grilletto della pistola d’ordinanza. Lo hanno bloccato all’ultimo. Ora è ricoverato all’ospedale San Giovanni.
«Da quello che è successo non è estranea la mano dell’uomo». Sono parole di pietra quelle pronunciate da monsignor Sanguinetti nell’omelia. Per il governo c’è il ministro per l’Integrazione Kyenge. Siede di fronte a una schiera di sindaci della provincia di Olbia-Tempio. «Non lasciamo inascoltato il monito che giunge da questa sciagura — aggiunge il sacerdote — ci sarebbero stati esiti meno devastanti se avessimo imparato a rispettare i ritmi del creato».
Invece il creato si è ribellato alla mano dell’uomo, e l’ha spazzato
via. Da come è ridotta la città sembra che il mare sia saltato addosso a Olbia. Che l’abbia violentata, sbattendola contro le montagne. E invece è stato il contrario, tutto è partito a monte (in tutti i sensi) e il mare adesso è ancora lì che guarda. Dall’acqua marrone che scorre nel canalone accanto allo stadio affiora il muso di un’auto. Cento metri più in su un motoscafo è conficcato contro la massicciata insieme a un cassonetto giallo, in mezzo alle
frasche. Via Unità d’Italia, la rampa che collega il Bandinu e il San Paolo: i due grandi pezzi di città ridotti in macerie. Quelli dove sono morte le sei vittime. Quelli dove c’è ancora il segno del livello raggiunto dall’acqua sui muri esterni: 1,80 metri. Puoi partire da una parte o dall’altra del ponte: lo scenario è lo stesso. Apocalittico. Un teatro di guerra. Via Ungheria, via Roma, via Ogliastra, via Iglesias, via Sarcidano, via Barbagia, via Mameli, via Logudoru.
E ancora, di là, via Lazio, via Cina. La zona dell’ospedale, flagellata. «Entri dentro, si affacci! È tutto distrutto». Come i ponti saltati e i pezzi di strada squarciati in periferia, su verso Monte Pinu. Le sorelle Pirina hanno visto il padre invalido portato in salvo per miracolo dai vigili del fuoco: l’hanno tirato fuori dalla finestra con un gommone. La casa non c’è più, sfasciata dall’acqua imbizzarrita del canale, l’acqua che si è presa tutto: anche la ferrovia. Ogni cosa in questi appartamenti è marcita, i letti, i divani, la cucina, i quadri, le poltrone. Nove case su dieci dei quartieri costruiti sotto il livello del mare e dei fiumi, sono ridotte così. Perché? Quartieri abusivi? Quartieri ex abusivi? Quartieri «sanati» ma mai curati? I muri sono venuti giù anche fuori dalle abitazioni. In via Barbagia c’era una massicciata lunga 30 metri, sotto la sopraelevata che porta in città. Crollata. Ripiegata su un fianco. Pare un treno deragliato.
«Stavo dormendo, mia madre mi dice “guarda che piove, metti un po’ di legno sotto la porta”. La apro e di acqua ne sono entrati due metri ». Massimo Dessena spala mentre la madre piange. Abitano in via Ogliastra, una lunga scia di fango ininterrotta, impressionante. I materassi sono il simbolo di ogni disperazione. Ne vedi ovunque fuori dalle case, agli angoli, addosso ai cancelli, alle inferriate, sulle auto. Fradici, piegati, lordi della melma che ha invaso le strade. Adagiati sotto mobili e resti di arredi, televisioni, mensole, sofà, pezzi di vita che non tornano più. Sotto l’insegna rossa di un negozio che vende prodotti per ufficio c’è un magazzino diventato piscina. Giovanni è il proprietario, un tipo alto due metri coi capelli biondi e la coda. È salito a bordo di una barchetta che vagava nell’inferno e ha salvato quattro, cinque, forse sei persone. Lui e due finanzieri. «Sentivo le grida, sono andato da una casa all’altra, quel che ho potuto ho fatto». Sta svuotando case e prosciugando anche Carlo Careddu, vice-sindaco di Olbia, stivali verdi come quelli che mezza città indossa in queste ore. Tutti al lavoro, in silenzio. Prima si sgobba, per la rabbia c’è tempo. Cumuli di detriti intasano ogni metro di marciapiede. L’acqua assassina ha inghiottito e ridotto in poltiglia case, autofficine, saloni d’auto, supermercati, negozi di ogni tipo. Per tutta la giornata si sentono pianti, grida di disperazione che scendono dalle finestre.
Via Cina, dalle parti dell’ospedale. La furia di Cleopatra, mai nome fu meno azzeccato, ha innescato un domino di auto: una addosso all’altra. Dietro i binari scomparsi sotto il fango. I vigili del fuoco risalgono il canale col gommone. «Se costruisci sotto il mare, se farcisci la terra di cemento nei punti sbagliati, prima o poi la terra si rivolta», butta lì un agente con vent’anni di esperienza. «E sa cosa dico? Che con tutto questo casino che vede, sedici morti sono un bilancio bugiardo. Voglio dire: poteva andare molto peggio». A sera parte dei 4mila sfollati della tempesta chiamata come la regina egizia, rientrano a casa. Andrea Temussi, proprietario dell’hotel
Luci della Montagna un tempo appartenuto alla famiglia Kassan, ha donato i letti e i materassi dell’albergo. Sono il segno della disgrazia, quel che manca di più adesso. «Vivi un cielo nuovo e una città nuova», dal libro dell’Apocalisse di San Giovanni. È questo l’ultimo passaggio dell’omelia funebre celebrata al Geovillage.
Da La Repubblica del 21/11/2013.
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