Lunedì la giornata mondiale contro la violenza. In Italia 128 vittime nel 2013.
Nel nostro Paese da gennaio a oggi ci sono stati 128 omicidi.
Il 25 è la giornata mondiale contro la violenza:
RIGUARDA TUTTI GLI UOMINI
Mariti, fidanzati, amanti o semplici conoscenti:
IL RISPETTO PARTE DALLE PICCOLE COSE QUOTIDIANE E
Alla comunità costano 17 miliardi di euro all’anno, mentre soltanto sei milioni vengono spesi per la prevenzione.
Donne Perché non succeda mai più
NEL 2013 in Italia sono state uccise 128 donne. Da mariti, fidanzati, amanti o semplici conoscenti. Per non dimenticare e cercare di fermare la strage il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza.
IN principio è il linguaggio. Le parole per dirlo. Il posto che la lingua dà alle cose diventa il posto giusto delle cose. Per capirci, ecco un test semplice. Quante volte avete detto o sentito dire: mio marito/mio figlio in casa è un disastro, se fosse per lui vivrebbe nel caos. O apparentemente al contrario: mi aiuta moltissimo, cucina e fa i piatti, si prende cura dei bambini. Quante volte avete sentito un uomo dire: oggi mia moglie non c’è, faccio da babysitter. Questo è il problema. Questa è la norma, dunque la norma è il problema.
Dalla subordinazione alla sopraffazione alla violenza lo scarto non è di qualità del gesto, è di quantità. Dalla normale “delegittimazione del lavoro domestico maschile” — dalla divisione di ruoli e di compiti tutto attorno a
noi per cui non c’è niente di strano che gli uomini di solito non sappiano stirare, per quanto stirare non sia affatto difficile — passa il principio per cui è normale che gli uomini si occupino d’altro. Anche le donne certo, lo fanno: in questo caso, se non vivono sole, spesso si sentono dire di quanto siano fortunate ad avere accanto un uomo che glielo consente. Perché invece la lingua ci informa che lo stato naturale delle cose è che siano gli uomini di solito a produrre reddito, cioè ricchezza, cioè potere, perché il denaro — nel mondo in cui viviamo — è potere. Come poi ogni uomo gestisca la sua supremazia nei confronti di chi gli vive accanto dipende solo dal suo livello di consapevolezza e di autocontrollo: da come gestisce le emozioni, da come governa il conflitto, dal grado di censura che assegna alla violenza come metodo di soluzione dei problemi. Dipende dalla sua educazione, in definitiva. In larga parte dipende dalla madre che ha avuto. La violenza che gli uomini esercitano sulle donne non è un’emergenza criminale: è anche questo, sotto il profilo tecnico, ma prima ancora è moltissimo più. È il risultato naturale dell’educazione condivisa, del linguaggio corrente, dei modelli di comportamento che costituiscono la norma.
Una lunga premessa, purtroppo necessaria, per dire che la violenza sulle donne non è un problema delle donne: è prima di tutto un problema degli uomini. Il danno è di chi la subisce. Il problema — la lacuna, la carenza, il deficit — è di chi la esercita. Quindi: la violenza di genere è un guasto del sistema che riguarda entrambi i generi ma in ordine cronologico è prima un guasto di chi alza la mano, poi di chi riceve lo schiaffo. A partire da questa osservazione semplicissima, evidente eppure così insolita nel nostro panorama di riflessioni sul tema, nei Paesi in cui il male è divenuto epidemico da molti anni si lavora sugli uomini: con le leggi, con l’educazione scolastica obbligatoria, con le terapie riabilitative, con il “sostegno ai portatori di violenza”. Sì, sostegno ai portatori di violenza, e pazienza se ci sarà come sempre chi alzerà il dito per dire che chi commette un reato deve solo essere punito, non aiutato. Certo, punito: ma giacché la violenza è sempre un segno di debolezza—è l’incapacità di usare la parola, la ragione, il gesto opportuno — è ovvio che i portatori di questa debolezza debbano essere aiutati a colmarla. Lo si fa in Messico, il paese della strage di donne a Ciudad Juarez, lo si fa in Portogallo e in Spagna, dove la cultura machista è persino più radicata che da noi. Lo si fa naturalmente nei paesi del Nord Europa, che tuttavia spesso ci appaiono remoti nel loro modello di soverchia virtù.
Mavi Sanchez Vivez è una neurofisiologa esperta di realtà virtuale immersiva. Il suo gruppo di ricerca lavora a Barcellona.Qualche mese fa, ospite del professor Aglioti alla Sapienza di Roma per la Settimana del cervello (Baw, brain awareness week) ha mostrato i risultati del lavoro sperimentale che nella sua regione porta avanti insieme al ministero di Giustizia. Gli autori di violenze condannati per reati commessi sulle donne vengono messi nelle condizioni di sperimentare lo stesso tipo di trauma. Grazie a un casco che lavora sugli impulsi cerebrali si trovano nella condizione di percepire se stessi come una donna che viene aggredita, picchiata, offesa. Hanno reazioni primitive e terribili:sudorazione, palpitazioni, pianto, qualche volta non controllano l’atto di urinare. Quando ho raccontato gli esiti di questo tipo di lavoro — riassumibile, per tornare alla lingua, nella frase “mettersi nei panni dell’altra” — sono stata sommersa di lettere di protesta di un gran numero di persone che hanno trovato questo lavoro“crudele”, “vendicativo”, “inutilmente feroce”.Qualcuno ha detto:“l’esito del peggior femminismo”. È anche questa una reazione istruttiva, molto eloquente. Il prossimo passo del gruppo di lavoro spagnolo sarà quello di mettere i carnefici nella condizione dei bambini
che assai spesso assistono alle violenze domestiche: farli sentire come si sentono i loro figli.Unodegli scopi di questo genere di lavoro è difatti quello di evitare che il modello di comportamento si replichi di padre in figlio, circostanza invece consueta e difficilmente evitabile senza un sostegno formativo efficace. In Messico la dottoressa Georgina Cardena Lopez dell’Unam,Università Autonoma del Messico, porta avanti da anni programmi che si avvalgono degli strumenti di realtà virtuale. Dodici settimane di terapia, con un risultato giudicato positivo nell’80 per cento dei casi. A Valencia c’è il programma Emma, diversi metodi e nomi indicano i protocolli adottati in Francia, in Svezia, in Gran Bretagna. In Italia siamo agli albori. Scarsissimi i finanziamenti, quasi tutte private le fondazioni e associazioni che lavorano sull’intervento mirato ai portatori di
violenza. Un bel libro, molto completo, è appena andato in stampa. S’intitola “Il lato oscuro degli uomini” e tratta la “violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento”. Le curatrici — Alessandra Bozzoli, Maria Merelli e Maria Grazia Ruggerini — fanno parte del gruppo LeNove, associazione di studi e ricerche sociali che già a dicembre del 2012 aveva consegnato un rapporto su “Uomini abusanti. Prime esperienze di riflessione e intervento in Italia”. Il rapporto e poi il libro sono una vera miniera di informazioni su quel che si potrebbe fare e non si fa, o non si fa abbastanza. Consultarlo è anche un modo sicuro per fare piazza pulita di ogni accusa moralismo, di manicheismo e di ideologia. C’è poco da filosofeggiare di fronte ai fatti. C’è piuttosto da provare a comprenderli senza pregiudizi, c’è da chiedersi perché non si passi di conseguenza all’azione. Una risposta possibile arriva da Laurie Penny,la giovane blogger inglese (oggi 27 anni, poco più che ventenne quando ha iniziato il suo lavoro di indagine) il cui “Meat market”, il mercato della carne, è tradotto in volume anche in italiano. Sua la definizione di “delegittimazione del lavoro domestico maschile” dentro la costruzione di un linguaggio e di un modello che “ha tutta l’accuratezza dei giochi di ruolo”, costumi ed eventuali nudità comprese. È un gioco — dice — concepito, commercializzato e utilizzato dagli uomini: il copyright è loro. Difficile che con arrendevolezza se lo lascino sfilare di mano. Difficile che vogliano smettere di giocarci, e di contrabbandare per libertà di scelta la decisione di tutte quelle donne che — madri o figlie — stanno al gioco senza accorgersi che la scacchiera è truccata. Conviene ribellarsi, dice Penny. Cambiare le regole a partire dal principio. Punire i colpevoli asseconda il principio di eccezionalità. Quando la violenza è la norma è sul normale corso degli eventi che bisogna lavorare. Capirlo, cambiarlo.
Da La Repubblica del 22/11/2013.
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