Brucia, il cuore dell’Est ucraino ribelle che ha sacrificato alla sua guerra trecento innocenti in volo. Brucia la raffineria di Lysychansk, colpita dalle granate; bruciano i quartieri di Lugansk, devastati dai colpi di mortaio che non tacciono un istante, nemmeno il tempo di lasciar scavare tra i rottami dell’aereo per cercare brandelli di vite perdute. Altro che cessate il fuoco, rilanciato e promesso da entrambi i fronti: per tutto il giorno l’artiglieria ha suonato un’oltraggiosa marcia funebre alle vittime
volo MH17. In direzione di Lugansk, non abbastanza distante da non sentire a orecchio nudo quell’ossessionante frastuono, si levano alte colonne di fumo. La gente dell’Est si è abituata alla paura e alla morte che piove improvvisa, ma è sempre più difficile officiare il miracolo di fingere una vita normale: ogni settimana che passa è più sconvolta e ferita, assediata dall’esercito ucraino e dai masnadieri che combattono con le armi in nome dei suoi sogni di autonomia.
I girasoli sono alti come i miliziani ribelli, che spuntano appena con le mimetiche e i pantaloni militari, con le tute e le pistole. E accanto a loro ecco i minatori, il volto annerito dalla fuliggine: forse è colpa della miniera, forse dei resti dell’aereo in fumo. Sono lì da quando hanno visto piovere i corpi dal cielo, lanciati nel vuoto dalla carlinga sventrata del Boeing. «Sembravano stoffe, pensavamo fossero abiti colorati», raccontano i testimoni ai cronisti a bocca aperta. In un campo di ortaggi un uomo distende un lenzuolo bianco sui resti carbonizzati che ha appena trovato: tra i rottami e gli ogdel getti indefinibili, tra i passaporti e i passeggini, le valigie e i cumuli di lamiera ne spuntano di continuo, in questa pagina di orrore che nessuno ha il coraggio di attribuirsi.
Ucraini, russi e ribelli “filorussi” si scagliano addosso responsabilità come sassate: a volte credibili ma provenienti da fonti dichiaratamente inaffidabili, come le presunte registrazioni audio che i servizi segreti ucraini dicono di avere catturato con le telefonate tra i ribelli «che hanno appena abbattuto l’aereo», sconcertati per l’errore e sorpresi dalla presenza di un volo civile nei loro cieli di piombo: «Ma che ci faceva qui? Non lo sanno che
c’è una guerra?». Altre così assurde e patetiche da sembrare scritte da un complottista dilettante, come il cimitero volante fatto precipitare dagli ucraini per azzoppare politicamente una ribellione che non riescono a domare militarmente. E intanto si muore, ancora e sempre. «Lugansk è distrutta », raccontano al telefono i corrispondenti delle agenzie confermando gli attacchi e l’avanzata dell’esercito ucraino che ieri avrebbe provocato «almeno venti morti».
Intorno all’enclave ribelle è terra bruciata, e non è un modo di dire. Ponti abbattuti, strade interrotte e disseminate di estenuanti e minacciosi
checkpoint. Per arrivare a Donetsk, con l’aeroporto chiuso e mezzo distrutto e con le grandi arterie interrotte, gli autisti che ancora se la sentono di fare la spola con il resto dell’Ucraina fanno giri lunghissimi e si fanno pagare centinaia di dollari, il doppio rispetto a pochi mesi fa e una fortuna rispetto a prima della rivolta. Ma ora è un altro mondo: la sciagura del volo malese ha disteso orrore e indignazione rendendo nuovamente grottesche — come all’inizio della protesta — le divise militari dei leader autoproclamati della “Nuova Russia”, le due province ribelli di Donetsk e Lugasnk. Camminano accompagnati da guardie del corpo armate fino ai denti nei molti ettari di campi in fiore e in frutto in cui si sono distesi i resti delle vittime. Quei campi sono sotto il loro controllo e lo rimarcano con gesti e presenza, mentre la gente del villaggio esce in pantaloncini e ciabattoni a cercare quello che si riesce ancora a identificare come appartenente a un corpo. E intanto si distendono cortine di fumo su un’inchiesta che non c’è più tempo per rendere autorevole:
troppe ore sono trascorse, troppi misteri sono già scivolati via senza lasciare tracce. Le scatole nere? Il «missile rubato » agli ucraini? Le batterie antiaeree «fornite dai russi»?
La task force internazionale di trenta uomini ammessa a indagare sul campo arriva inesorabilmente tardi, ed è numericamente minuscola di fronte al disastro e allo spettacolo di barbe finte che confondono e attribuiscono le responsabilità. Resta la povera gente da seppellire, e l’altra povera gente da proteggere da una guerra che non si ferma nemmeno per un sussulto di pietà.
Da La Repubblica del 19/07/2014.
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