La solitudine d’Israele che combatte Hamas lontano dal mondo. Viaggio nel Paese unito dalla guerra “Costretti ad andare fino in fondo”.
GERUSALEMME – QUALCHE giorno fa, all’aeroporto di Tel Aviv, una giovane donna della sicurezza mi rivolgeva, come succede a chi entri da giornalista, una lunga serie di domande. Domande gentili, che hanno presto lasciato il posto a una conversazione. Le ho detto, alla fine, che distinguo fra l’esistenza dello Stato di Israele, cui sono fortemente legato, e le azioni dei suoi governi, dalle quali spesso fortemente dissento, e che comunque ero venuto per vedere e ascoltare, e avrei raccontato quello che avrei ascoltato e visto.
SIMILI colloqui d’ingresso sono spiegabili nelle condizioni di Israele o dei Territori palestinesi, e tuttavia suscitano il sospetto che si voglia indurre a un’autocensura o intimidire il visitatore. Cosicché vorrei raccontare prima di tutto alcune delle cose che ho visto e sentito, pregando chi legge di smettere subito, oppure di arrivare in fondo, per evitare un marchiano fraintendimento.
Ho visto alcune dimostrazioni nei villaggi palestinesi di Bil’in, Ni’ilin e Nabi Saleh, in Cisgiordania. Manifestazioni di routine, somiglianti quasi a una recita in cui ciascuno fa scrupolosamente la propria parte: adulti, giovani e bambini, e sostenitori stranieri, che avanzano battendo le mani su bidoni, sventolando bandiere, scandendo slogan, finché i più risoluti si spingono fin sotto il Muro di separazione, il quale intanto hanno preso posizione i militari israeliani e i loro blindati. C’è uno scambio rituale di frasi, sempre le stesse — una è proprio la stessa da entrambe le parti: «Tornatevene a casa» — poi comincia lo scontro. Ragazzi lanciano con le fionde: non quelle con la forcella, quelle che si fanno roteare fino a rilasciarne un capo, in modo da ricordare più incresciosamente il pastore Davide. Un soldato grida: «Vuoi altro gas?», ricordando anche lui qualcosa di terribile, senza volere. Qualcuno lancia pietre, qualcuno esplode granate assordanti, lacrimogeni, proiettili di gomma, non importa chi ha cominciato oggi, c’è confusione, fughe, nuove avanzate, insulti, ci sono dei feriti.
Allora gli uni urlano che ci sono dei feriti, gli altri urlano che avevano avvisato. D’un tratto la recita finisce coi morti veri. Bassem e Jawaher Abu-Rahmah, fratello e sorella, di Bil’in. Ahmed Moussa, 10 anni, a Ni’ilin. Mustafa Tamimi e Rushdi Tamimi a Nabi Saleh. Accorrono ambulanze. I manifestanti piangono e gridano «Fascisti! » Si disperdono, poi si raccolgono di nuovo, e ricominciano i tamburi, le bandiere, gli slogan, più rabbiosi. Su una grande fotografia di una jeep dell’Idf è tracciata la scritta: «Chi ha ucciso Mustafa?». Ci sono dei soldati e. ai loro piedi, dei giovani con le mani legate e gli occhi bendati, in posa davanti a una telecamera.
Potrei continuare a lungo, e con dettagli ancora più drammatici e crudi. Il fatto è che ho visto e sentito queste cose nel piano nobile del (bellissimo) Museo d’arte di Tel Aviv, che dedica un posto d’onore alla mostra personale del pittore israeliano David Reeb (nato nel 1952). Reeb, le cui opere hanno un’aria “facile” ed eclettica che può ricordare la versatilità frenetica del giovane Schifano “vietnamita”, ha fatto delle storie che ho sommariamente riassunto il contenuto esplicito dei suoi quadri e fin qui i commentatori perbene avrebbero giocato sulla peculiarità del linguaggio artistico e della mediazione rispetto alla nuda cronaca o all’impegno politico. Ma Reeb espone anche i video che ha girato andando per dieci anni ogni venerdì nei villaggi citati, e non ha compiuto su quei video e sul loro sonoro il minimo intervento. Lì la comunicazione è immediatamente politica. Non sto scrivendone per un’intenzione di critica d’arte, ma per segnalare un pluralismo — una schizofrenia, qualcuno preferirebbe dire — della società israeliana che è un luogo comune, ma fa oggi un contrasto più netto, di cui vorrei conversare al ritorno con la giovane signora della sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion.
Mancano i turisti oggi in Israele. Così mercoledì mi è successa l’esperienza spaesata e imbarazzante di essere l’unico visitatore della Tomba dei Patriarchi a Hebron, sacra a ebrei, cristiani e musulmani. Era il terzo e ultimo giorno dell’Eid al Fitr, la festa della fine del Ramadan. Il monumento sarebbe stato meta di visite di fedeli e pellegrini musulmani, in un’altra situazione. Hebron era deserta se non di gatti. Del resto lungo il percorso, sia verso Betlemme e Hebron, sia poi verso Ramallah, anche i posti di blocco erano pochissimi e poco rigidi. Al checkpoint di Kalandia, il principale accesso a Ramallah, c’erano bensì i segni pressoché fumanti degli scontri di una settimana fa, quando al valico era arrivata la manifestazione di 10mila palestinesi della capitale vicaria.
Era affollato e vivace il centro di Ramallah, dove l’unica cosa da fare l’avevano già fatta tutti i giornalisti del mondo: chiedere per chi voterebbero se oggi si tenessero le elezioni. (Se e quando si terranno, è sulle ginocchia di qualche Giove). Ho smesso di provarci quando un giovane ha risposto: «Hamas» senza lasciarmi finire la domanda. Abu Mazen non è mai stato così debole, Hamas non era mai stata così popolare. Lo si direbbe un enorme errore di calcolo dei dirigenti israeliani, i quali peraltro erano i più in grado di metterlo in conto.
Divergenze interne a parte, qual è il criterio che guida la leadership israeliana? Non certo la preoccupazione dell’impopolarità e peggio dell’odio suscitato nella gente del resto del mondo dall’impresa di Gaza. La gente del mondo si è sentita dire che l’operazione contro Hamas reagiva al rapimento e all’assassinio dei tre ragazzi israeliani, e però che Hamas non ne era l’autrice, benché i possibili autori fossero suoi aderenti, e Hamas fosse giunta ad approvare. (Per lo statuto di Hamas, uccidere ebrei è un dovere morale). La gente del mondo non sa del lancio di razzi da Gaza, o pensa che sia stato la risposta alla dichiarazione di guerra di Netanyahu contro Hamas. E misura giorno dietro giorno la scia di morti e feriti, le immagini e le storie tragiche delle vittime a Gaza. La piccola estratta dal ventre della madre uccisa dalla bomba, e sopravvissuta solo pochi giorni. Le famiglie colpite nell’edificio in cui hanno cercato rifugio dopo aver abbandonato le proprie case sulle quali erano stati annunciati i bombardamenti: un appuntamento a Samarcanda. E i bambini.
C’è una controversia esasperante sulle immagini dei bambini colpiti. Ma nessuna strumentalizzazione, retorica, esibizione, cinismo, nessun avvertimento sul fatto che i bambini di Gaza vengano addestrati all’odio e al lutto, può far dimenticare che sui bambini di Gaza pesa fino a schiacciarli il passato di tutti: degli israeliani che si vorrebbe cancellare dalla terra
in cui si cercarono un rifugio, degli ebrei che si vollero cancellare dalla faccia della terra, degli europei che li vollero cancellare o non seppero impedirlo, degli arabi che vorrebbero cancellare… Le autorità di Israele mostrano, e non è una novità, di tenere in un conto del tutto secondario i sentimenti della gente del mondo verso il loro Stato, se non di ridurli del tutto al pregiudizio. Si affidano alla ragion di stato e alla convinzione di tenere
un avamposto e doverlo difendere, anche a costo di non essere più la prima linea di qualcuno, e di restare soli. L’altra faccia del disprezzo verso i sentimenti altrui è l’unità che l’offensiva di Israele raccoglie fra i suoi abitanti. Attendibili o no i sondaggi che danno una maggioranza pressoché totale di israeliani solidali con l’attacco a Gaza, il dato è comunque da riconoscere. Gli striscioni a Gerusalemme dicono: «Saldi nelle retrovie, vittoriosi al fronte».
Se non se ne vuol fare vergognosamente l’espressione di un razzismo psicologico, bisogna leggere la frase che l’altro giorno David Grossman ha lasciato cadere nel suo testo per questo giornale, una constatazione, spero, forse ancora un auspicio: «La sinistra è più consapevole dell’intensità dell’odio verso Israele (che non deriva solo dall’occupazione), della minaccia dell’integralismo islamico e della fragilità di qualunque accordo verrà firmato. Molte più persone, a sinistra, capiscono oggi che i timori e le ansie degli esponenti della destra non sono soltanto paranoie, ma scaturiscono da una concreta realtà». A queste ansie la destra sembra limitarsi, e ignorare la strategia, cioè il tempo lungo, per la tattica, cioè la mera forza. Oggi crede di poterlo fare con più sicumera, perché a compensare l’indignazione commossa della gente del mondo sta un contesto politico internazionale apparentemente molto più favorevole che nelle altre “guerre di Gaza”.
Israele (e anche l’Europa) ha regalato la Turchia ad Hamas, ma l’Egitto di Al Sisi ha tolto ad Hamas il legame più solido e incisivo, gli Hezbollah libanesi hanno altro da cui guardarsi, la Siria è un relitto alla più sanguinosa delle derive. La Giordania, straripante di profughi, spera come l’Egitto che Israele dia una lezione ad Hamas, purché non a costo di una destabilizzazione che li coinvolgerebbe. La stessa cosa vale per l’Arabia Saudita. Le autorità israeliane si rallegrano che le piazze arabe questa volta non si riempiano di folle scatenate contro di loro: ma se le piazze restano vuote, si ingrossano a dismisura le file delle armate jihadiste. Il contesto “favorevole” lo è solo apparentemente, e nel breve tempo: nel lungo, la minaccia islamista
(islamista, non islamica) non fa che rafforzarsi. A Ramallah voterebbero in tanti Hamas, e anche il califfato.
Mettere tregua o fine alla scalata di Gaza è un imperativo immediato. Però, casualmente o consapevolmente, quello che la nuova crisi israelo-palestinese ha rimesso all’ordine del giorno — e che l’“Occidente” aveva via via accantonato, per pigrizia, per quieto vivere, per stupidità o, peggio che tutto, facendoci l’abitudine — è l’avanzata dell’islamismo jihadista dal 2001 a oggi. Ho parlato con israeliani entusiasti dell’attacco a Gaza, la buona volta di andare fino in fondo, dicono. I prossimi siete voi europei, dicono, ma voi dormite, non sapete che cos’è il sacrificio. Noi non vogliamo appartenere all’Europa, dicono, né somigliarle. Conosco l’argomento, naturalmente, so più o meno come rispondere. Ho vacillato quando uno mi ha detto: «Hai saputo che i servizi norvegesi hanno avvertito della minaccia di un attentato islamista a Oslo, da parte di loro volontari di ritorno dalla Siria?».
Da La Repubblica del 01/08/2014.
L’ho letto, tutto, fino in fondo. Ogni tentativo di vedere questa crisi in prospettiva storica e campo lungo è il benvenuto. Ma c’è un’altra preoccupazione, che persone come Grossman e Oz e altri intellettuali non residenti in Israele hanno sottolineato. Cosa resta di Israele, se Israele accetta di bombardare Gaza? Nel momento in cui questa accettazione avviene, si accetta di uccidere civili e bambini. Non è la prima volta, certo, nella storia israeliana; e tuttavia…
Quella che viene costantemente esclusa dalla quasi totalità dei commenti, compreso il suo, è l’ipotesi che esista una strategia di lungo termine dietro i singoli episodi, tragici, squallidi, feroci che costellano i rapporti tra Israele e arabi.
Mi riferisco al progetto di annessione di Giudea e Samaria, avviato col piano Allon nel ’68, modificato nel corso del tempo, ma sostanzialmente proseguito ininterrottamente per quasi 50 anni. Su quel territorio, per decenni, il numero di coloni ebrei è costantemente aumentato, a prescindere dalla maggioranza politica al governo.
Tuttavia, per molto tempo e contemporaneamente al piano di annessione, la maggioranza della popolazione israeliana era invece orientata in un’altra direzione. Una direzione esemplificata dal concetto “Terra in cambio di pace”: i territori occupati nel ’67 avrebbero dovuto essere restituiti alla sovranità degli arabi palestinesi in cambio di un definitivo accordo sui confini.
Purtroppo, per una serie di eventi: dall’omicidio di Rabin, all’ictus di Sharon, allo scandalo che ha messo fuori gioco Olmert, ogni tentativo di realizzare questa opzione è stata vanificata.
Questo dimostra che il piano di annessione è stato il piano di una minoranza, ma una minoranza abbastanza potente da imporre la sua strategia alla maggioranza degli israeliani, ai Paesi alleati di Israele, alle istituzioni sovranazionali, tanto da essere riuscita a determinare uno stato di fatto sul terreno che ormai rende quasi impossibile la soluzione a due Stati.
Questo dimostra anche l’esistenza di una elite capace di perseguire un progetto per quasi mezzo secolo e di imporlo su ogni alternativa possibile da chiunque sostenuta.
Omettere questo fatto dalle analisi sull’attualità rende le medesime inconsistenti o mistificanti, perché l’esistenza di questa entità potrebbe spiegare molto di quello che altrimenti apparirebbe casuale o involontario.
Per precisare meglio le caratteristiche ideologiche di questa elite è necessario prendere in esame il suo progetto di annessione di Giudea e Samaria nel contesto in cui è calato.
Non voglio abusare di questo spazio, dunque fornisco direttamente le mie conclusioni: l’elite è motivata dalla convinzione che Giudea e Samaria siano parte indissolubile della terra di Israele. Sia che questa convinzione derivi da una concezione laica basata sulle fonti storiche, sia che derivi da una concezione religiosa, in ogni caso afferma il diritto eterno degli ebrei su un territorio che comprende Giudea e Samaria.
L’affermazione di questo diritto comporta due conseguenze: chiunque non ebreo che occupi quelle terre lo fa illegalmente, ed è quindi legittimo espellerlo; qualunque sistema giuridico o etico che non comprenda questo diritto è irrilevante.
Ora forse si capisce meglio il senso delle azioni del governo Netanyahu e di quelle dei suoi predecessori. L’accusa rivolta ad Hamas di aver rapito e ucciso i tre ragazzi israeliani che ha fornito la motivazione ai rastrellamenti, agli arresti, alle demolizioni, alle uccisioni, avvenute in Cisgiordania e che hanno causato la risposta di Hamas da Gaza era pretestuosa. Si voleva colpire Gaza con un massacro eclatante per costringere Fatah e Hamas a dividersi tra moderati ed estremisti e vanificare con questo gli effetti della riunificazione delle due organizzazioni palestinesi.
Una riunificazione che per la strategia della elite è stata vista come pericolosa, dal momento che ha ricostituito un rappresentate unico per la parte palestinese che potrebbe rendere le eventuali trattative di pace molto più efficaci e molto meno giustificabili i rifiuti della controparte israeliana.
Ma colpire Gaza, come viene fatto periodicamente, e mantenere l’assedio che la chiude in una prigione, ha anche lo scopo di lanciare un messaggio di brutale chiarezza ai palestinesi: nessuno vi può aiutare e a qualunque diritto vogliate appellarvi, per quanto possa essere universalmente condiviso, noi non lo riconosciamo. Dunque non avete speranze di realizzare le vostre aspettative, per quanto le riteniate legittime. Ed è un messaggio chiaro anche per il resto del mondo.
Vede, caro Sofri, che se si tiene conto della ipotesi che ho proposto le analisi acquistano tutto un altro spessore?