LA CORTE D’ASSISE DI PALERMO HA DECISO: IL CAPO DELLO STATO DOVRÀ CHIARIRE SUGLI “INDICIBILI ACCORDI” SOLO ACCENNATI DAL SUO CONSIGLIERE LORIS D’AMBROSIO.
Il Pd Luciano Violante, oggi in corsa per uno scranno alla Consulta con la benedizione del Quirinale, l’aveva definita una trovata “originale” dei giudici di Palermo, ma ora la Corte d’Assise lo ha stabilito con chiarezza: la citazione del presidente della Repubblica, in qualità di testimone, nel processo sulla trattativa Stato-mafia, non è “né superflua né irrilevante”, dunque “deve darsi corso alla testimonianza”. E Napolitano, con una nota diffusa dall’ufficio stampa del Colle, ha dato prova di grande aplomb istituzionale: “Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza – ha fatto sapere – secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso”. SI CHIUDE COSÌ una controversia politico-giudiziaria che per circa un anno ha tenuto col fiato sospeso la diplomazia del Quirinale e ha arroventato il processo che fa fibrillare il cuore delle istituzioni.
Ieri mattina, alla riapertura del dibattimento dopo la pausa estiva, il presidente Alfredo Montalto ha respinto le istanze di alcuni difensori che chiedevano un ripensamento sul coinvolgimento diretto del capo dello Stato nel dibattimento, e ha annunciato che la Corte di Palermo è pronta alla trasferta sul Colle: Napolitano deporrà in un salone ovattato del Quirinale, in base all’articolo 502 del Codice di procedura penale, che disciplina i casi di testi impossibilitati a recarsi in udienza e che sono ascoltati a domicilio. Per questo motivo, nella sala che verrà adibita alla testimonianza, scatterà “l’esclusione della presenza, oltre che del pubblico, anche degli imputati e delle altre parti, che saranno rappresentate dai rispettivi difensori”. “Prendiamo atto della decisione”, commenta il pm Nino Di Matteo, “d’altra parte noi avevamo già illustrato i motivi per i quali ritenevamo rilevante la testimonianza del capo dello Stato, e la Corte d’assise aveva già ammesso la prova”’. Prima delle vacanze estive, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi aveva ribadito l’istanza di sentire Napolitano, osservando che “la lettera inviata dal presidente alla Corte non può essere intesa come sostitutiva della sua testimonianza”. L’ALLUSIONE è alla lettera spedita il 31 ottobre 2013 con la quale il capo dello Stato fece sapere che sarebbe stato “ben lieto di dare un utile contributo all’accertamento della verità processuale”, indipendentemente dalle riserve sulla costituzionalità dei suoi predecessori, “ove ne fosse in grado”. Nella missiva, praticamente, Napolitano faceva capire che non intendeva sottrarsi alla deposizione, ma nello stesso tempo raffreddava notevolmente le aspettative, esponendo quelli che definiva “i limiti delle sue reali conoscenze”. Ieri, però, la Corte ha deciso che “il contenuto rappresentativo” di quella lettera “non è utilizzabile nel processo, in assenza di un accordo delle parti, accordo che nella fattispecie non è intervenuto”. Montalto ha poi concluso che anche se si volesse “prendere atto del diniego di conoscenze già espresso dal teste”, non è venuto meno “l’interesse della parte richiedente ad assumere la testimonianza, anche soltanto per acquisire la dichiarazione negativa di conoscenza”. Il capo dello Stato, in sostanza, deve deporre perchè “non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di interrogare un testimone su fatti rilevanti, solo perché quel testimone ha escluso di essere informato su quei fatti”. A nulla sono valsi, insomma, i “limiti” preventivi posti dall’inquilino del Quirinale, che nei prossimi giorni sarà chiamato a rispondere su un tema ben preciso: le preoccupazioni che il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio riversò nella lettera a lui indirizzata il 18 giugno 2012, poco prima di morire stroncato da un infarto, alludendo a “indicibili accordi” che lo avrebbero visto agire come un “utile scriba”, tra l’89 e il ’93. L’ipotesi della procura di Palermo è che nel ‘93, quando lavorava con Liliana Ferraro all’Ufficio studi degli Affari Penali, D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire l’applicazione del 41 bis: una nomina ritenuta cruciale nell’ambito del dialogo tra i boss e le istituzioni.
Da Il Fatto Quotidiano del 26/09/2014.
[…] IL TESTIMONE NAPOLITANO – Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Il Fatto Quotidiano […]