La Corte d’assise di Palermo ha deciso che gli imputati Totò Riina, Leoluca Bagarella – in videoconferenza – e Nicola Mancino non potranno presenziare all’audizione del capo dello Stato. Nessun rischio di nullità del processo, assicura il presidente Montalto in quanto sono state tutelate le prerogative del capo dello Stato come prevede la Costituzione e la Corte dei diritti dell’uomo. È proprio così? Lo chiediamo a Paolo Ferrua, docente di Diritto procedura penale nell’Università di Torino, uno dei massimi esperti del “giusto processo”, autore del libro omonimo: “Regola generale è che le norme del Codice di procedura penale vadano interpretate sin dove è possibile in modo conforme alla Costituzione e alla Convenzione europea. Tuttavia ove vi fosse un conflitto non sanabile fra il codice e la Costituzione o la Convenzione, in via interpretativa il giudice non può disapplicare le disposizioni del codice, ma deve sollevare questioni di legittimità costituzionale”. Quali sono queste norme? Sul piano costituzionale fondamentale è il diritto di difesa tutelato dagli articoli 24 e 111 e protetto dall’art. 6 della Convenzione. Non sono previste eccezioni per processi di criminalità organizzata, né in rapporto a prerogative del presidente della Repubblica. La Costituzione sul punto tace, non prende in considerazione l’ipotesi che un capo di Stato possa testimoniare.
Saranno presenti i loro avvocati. Basta per salvare il diritto di difesa? Alla testimonianza del presidente, prevista dall’art. 205, è ragionevole applicare in via analogica l’art. 502 relativo all’esame a domicilio dei testimoni. Questo articolo stabilisce che l’esame si svolge nelle forme previste per il dibattimento, esclusa la presenza del pubblico. Quanto all’imputato l’art. 502 afferma che è rappresentato dal difensore. Ciò significa che non è prevista la sua partecipazione essendo il suo interesse tutelato dal difensore. Tuttavia il secondo comma dello stesso art. aggiunge che “il giudice quando ne è fatta richiesta ammette l’intervento dell’imputato”. Se si intende “ammettere” come “deve ammettere” l’imputato quando lo chieda, deve essere ammesso a presenziare alla testimonianza, fermo restando che non può rivolgere domande lui stesso al teste. Quanto alle modalità di partecipazione degli imputati detenuti ritengo sia applicabile se non direttamente, perlomeno in via analogica, l’art. 146 bis che prevede la partecipazione telematica. Di fatto Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra – seppure su uno schermo –, sarebbe entrato al Quirinale. Capisco, ma Riina sarà pure il criminale peggiore di questo mondo, però nel processo è imputato e per la Costituzione deve esercitare i suoi diritti. La mafiosità non è un virus che si trasmette per via telematica, non c’è pericolo di contagio. Come può, la sua presenza a distanza, mettere in pericolo le sacrosante garanzie del presidente? Ciò che mi fa paura è che così si crei una eccezione al diritto di difesa. Però l’imputato può partecipare in via telematica solo ai dibattimenti in aula. È vero che l’art. 146 bis fa riferimento diretto ad attività svolte in aula di udienza, ma questo non impedisce che si applichi in via analogica. L’art. 146 bis rappresenta già una attenuazione del diritto di difesa che idealmente esigerebbe la partecipazione reale dell’imputato che lo chieda. L’art. 146 bis costituisce un livello minimo di tutela sotto il quale non si dovrebbe scendere per non minare il diritto di difesa. La decisione del Tribunale può inficiare il proseguimento del processo? Potrebbe certamente sollevare problemi di lesione del diritto di difesa che non può cedere di fronte e prerogative presidenziali che non siano espressamente previste dalla Costituzione o dalla Convenzione europea. Se Riina o Mancino venissero condannati anche sulla base della testimonianza del presidente il processo sarebbe a rischio. I legali di Mancino hanno fatto opposizione. La decisione è appellabile? No. Il processo va avanti e la Corte risponderà all’eccezione in sede di emanazione della sentenza.
Da Il Fatto Quotidiano del 10/10/2014.
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