NELLE belle cronache di una bruttissima storia ritornano gli angeli del fango. Non c’è stato bisogno di riandare all’origine, le magliette con “Non c’è fango che tenga” avevano tre anni, è bastato rimettersele e trasformare un privato ricordo in indumento utile e bandiera pubblica.
GLI angeli del fango sono in realtà una leva perenne nel nostro Paese. Il confronto letterario, estetico, civile con l’origine, il novembre 1966 della spaventosa alluvione fiorentina, è pieno di suggestioni, ma c’è prima di tutto un pensiero che vale la pena di proporre.
La Firenze di allora, mezzo secolo fa, le decine di morti, le file di ragazzi che si passavano i volumi alla Biblioteca Nazionale (dove ancora quando piove forte si bagna la Sala manoscritti…), il Crocifisso di Cimabue, le migliaia di giovani accorsi da tutto il mondo (nel 2006, per il quarantennale, ben 10 mila furono identificati per nome e convocati, e nel 1966 non c’erano cellulari e mail e Facebook, e nemmeno la luce, e le notizie le davano i radioamatori…) furono visti subito come una rivelazione di qualcosa che incubava e cui la tragedia aveva offerto l’occasione per annunciarsi. E sempre più, dopo, questa fu l’interpretazione: una nuova generazione internazionale, data ancora nei paleosondaggi italiani come tutta casa famiglia e chiesa e aspirazione al posto nel parastato, si era data un appuntamento preliminare, una prova generale dell’entrata turbinosa in scena del Sessantotto, della tentata rivoluzione.
Esattamente all’inverso, si è tentati ora di guardare le figure e ascoltare le parole dei giovani nel fango genovese come la rivelazione di qualcosa che si è consumato per intero, la speranza e perfino il desiderio di una rivoluzione e della stessa passione per la politica. A Firenze 1966 gli angeli del fango prima della rivoluzione sognata, a Genova 2014 gli angeli del fango dopo la rivoluzione mancata. Angeli con lo sguardo rivolto al futuro i primi, angeli con lo sguardo voltato alla rovina del passato i secondi.
Vorrei dire che, per quanti appigli fondati queste sensazioni abbiano, esse tuttavia fanno torto a una bellezza comune a queste immersioni generose nel fango, che non valgono per un prima o per un dopo, ma per sé, per l’alternativa che realizzano oggi, e ogni volta che sono costrette a ripetersi. Non sono il punto iniziale né il punto oltre la caduta della meglio gioventù, che può esserci ogni volta di nuovo, quando ne abbia l’occasione, o la necessità. I ragazzi del fango (e quelli che non sono più ragazzi e con loro si infangano e si confondono) non sono una promessa, se non altro perché le promesse si mantengono raramente, quelle d’autunno e quelle delle primavere: sono un fatto. La meglio gioventù con le sue vanghe precarie.
Dopo di che, le differenze, come si dice, saltano agli occhi. Il bianco e nero del 1966 (anche del ‘68) nutre la nostalgia, e fa somigliare alcune delle fotografie di gruppo di allora più a certe immagini della Prima guerra che ai fotogrammi di Genova. E d’altra parte certe voragini a colori spalancate sotto le case di Genova somigliano sinistramente a quelle delle bombe antitunnel di Gaza. Che disgrazie possono patire gli umani, che disgrazie possono infliggersi. Delle fotografie che ho scorso ieri, mi piace quella in cui i ragazzi sprofondati fino ai ginocchi spalano sotto un cartellone con su scritto “Compro oro”, e quella in cui mostrano alte le mani aperte nere di fango: bella versione di mani pulite.
Quanto ai commenti, alle inchieste, alle denunce reciproche, alle affermazioni e alle negazioni sul mutamento del tempo meteorologico e dei tempi morali, è tutto molto istruttivo, ma fino a un certo punto. Al punto in cui si riapre il Principe, al famoso capitolo XXV, sulla Fortuna e l’impegno a opporsi alla sua potenza, pur riconoscendola invincibile, e sulla speciale sorte dell’Italia. È un brano che troppo spesso si legge solo come una magnifica metafora, ma Machiavelli aveva visto l’Arno uscire a Firenze e a Roma il Tevere: “Et assomiglio /la fortuna/ a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano li alberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno così fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete l’Italia… vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: ché, s’ella fussi reparata da conveniente virtù, come la Magna /la Germania/, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta”.
Da La Repubblica del 13/10/2014.
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