STORIE ITALIANE.
Sono come i fiori, i miracoli. Basta saperli vedere. Che meraviglia è la conoscenza perfetta delle proprie emozioni, la capacità di prevedere quando una parola, un’immagine, ti faranno piangere, o potranno farti piangere davanti a tutti. Che cosa sovrumana è andare su e giù per la propria vita scegliendo come raccontarla. Scientificamente deglutendo in quel passaggio, o liberando una piccola risata prima di affrontare il tornante che potrà travolgere ogni diga. Anni e anni, milioni di minuti che possono rovesciarsi d’incanto in unpubblicoraccontodadomare con sapienza acuminata. HO APPENA visto una giovane donna farlo mentre nessuno se ne accorgeva. Sembrava tutto ben confezionato. Lindo e costruttivo e commovente. L’ideale per un 8 marzo che non sia solo garrula mimosa.
Una volta in più il racconto di una tragedia che pochi ricordano ma che quando viene disseppellita afferra subito la memoria con il suo orrore. Una mattina di aprile di trent’anni fa. Pizzolungo, provincia di Trapani. Un giudice arrivato fresco dal Trentino, con fama di investigatore incontrollabile. Si chiama Carlo Palermo. Gli hanno preparato un’autobomba. Mentre passa davanti all’ordigno di morte è costretto a superare un’utilitaria. Allineati come in un impossibile esperimento: l’autobomba, l’utilitaria, l’auto del giudice con scorta. La mafia ha fretta, il pulsante parte lo stesso. L’esplosione investe in pieno l’utilitaria, che fa da schermo alla blindata. Dentro ci sono una giovane mamma con i suoi due gemellini. Diretti a scuola e invece scaraventati e schiacciati contro una parete fino a confondercisi. Ci resterà su l’ombra. L’ombra di Barbara Rizzo e di Salvatore e Giuseppe Asta. La sorellina, Margherita, è già a scuola. Il resto provate a raccontarlo voi. Di lei che appena iniziano le lezioni viene invitata a rifare la cartella e a tornare a casa. Contenta perché lascia la scuola. Ma che arrivata a casa si sente dire che la mamma e i fratellini “sono volati in cielo”. Lei che resta con il papà, che si risposerà ma morirà di sofferenza dopo dieci anni. Immaginate una bambina che cresce così e diventa adulta, costretta anche a guardarsi dal suo avvocato quando ha l’età della ragione e che si vede negare la piccola giustizia possibile di questo mondo da nostra Signora la Cassazione, che Dio l’abbia in gloria. E poi, attraversando le solitudini, la scelta di battersi per la giustizia nella provincia di Trapani e anni dopo in Emilia, con lo zaino di quei ricordi che arroventano il sonno. Ecco, provate ad andare su e giù per una storia così e a raccontarla senza piangere mai, perché tutto vi siete abituati a governare, perché vi conoscete e già mille volte vi è capitato di commuovervi e vi vergognate a farlo vedere. Un morso alle labbra nel secondo giusto, un pugno che di nascosto si chiude a scaricare il tremore. È il mistero profondo (e così poco cantato) del dolore umano e della richiesta di giustizia che si porta dietro e dentro. Un invisibile urlo di Munch, che fa dell’8 marzo una sfida femminile ai cieli del potere. Lo stesso che l’altro ieri mattina ha squassato con dolcezza il marzo sfavillante della terza giornata europea del Giardino dei Giusti a Milano quando si è inaugurato, tra gli altri, il cippo dedicato a Ghayat Mattar, giovane pacifista siriano ucciso nel 2011. La lettera inviata dalla madre era di un bellezza da togliere il fiato. Il sole e le macerie siriane, il profumo di primavera e la carneficina siriana, le scolaresche colorate e il ragazzo senza giustizia. “Ogni madre del mondo intero ha un unico cuore, piange le stesse lacrime e trema nello stesso modo… Ogni madre ha lo stesso sorriso quando vede arrivare i figli, lo stesso orgoglio se essi sacrificano le loro vite per una nobile causa in cui credono. Lo stesso dolore a vedere i loro vestiti dopo che sono stati chiusi in carcere o sono morti. […] Io sarò trasparente come l’acqua che è negata ai prigionieri e alla gente assediata. Sarò quindi diretta come i proiettili che uccidono i nostri figli tutti i giorni. Non c’è vittoria che possa compensarci del sacrificio di ogni singola madre, ma questa vittoria realizzerà le speranze e le ambizioni dei nostri figli e questo è il motivo per cui continuiamo a seguire il loro cammino di libertà”. HO CHIESTO: quella mamma non è né poetessa né scrittrice, l’ha resa poetessa il dolore, come per raccontare al mondo, attraverso lei, questo bisogno di giustizia irresistibile, capace di nutrire l’anima e insieme di divorarla. Anche se al suo cospetto si stagliano le ridicole “riforme della giustizia” dei confini nazionali, o gli arabeschi e i balbettii irresponsabili nelle sedi internazionali, le stesse che “ormai governano il mondo”, che squisita fesseria. Continui dunque la nostra scuola, come per fortuna sta facendo da anni, a dare coscienza ai ragazzi di quel che accade. Continui con i suoi precari e con le sue inefficienze a tenere almeno alta questa bandiera di civiltà, che è in fondo il suo più grande merito. Perché quell’urlo tragico e poetico giunga là dove non lo fanno arrivare né le tivù né la politica. Non per cattiveria. Ma perché proprio non lo sentono.
Da Il Fatto Quotidiano del 08/03/2015.
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