POTESSIMO riavvolgere il filo del nostro lavoro, rimediare agli errori, riparare almeno qualche ferita, tornerei volentieri agli anni Novanta in Algeria. Lo ricordava l’altro giorno Gad Lerner commentando la strage di Tunisi. Centomila algerini massacrati dal jihadismo. Entravano nei villaggi considerati “ostili”, macellavano uomini, donne e bambini, era già in pieno atto la guerra genocida che poi prese il nome di Al Qaeda, Isis, Boko Haram e apparentati. Da qualche parte conservo una mia poesia (retorica, ma sentita) sulle ragazze di Algeri sgozzate dai maschi islamisti perché indossavano i jeans. La pubblicai su Cuore, che era un giornale di satira e dunque felicemente marginale; difficilmente avrebbe trovato spazio altrove.
I media “normali” davano poco spazio alla guerra civile algerina, la consideravano un fatto truculento e periferico. Eppure la distanza di quel sangue dall’Italia era tal quale quella dell’ex Jugoslavia, la cui tragedia ebbe ben altra visibilità mediatica. Non capimmo, allora, che in quella guerra ferale, poi vinta, per loro e nostra fortuna, dall’Algeria civile, era riassunto il nostro futuro. Non lo capimmo perché (lo dico brutalmente, scusate) siamo razzisti. Un morto occidentale vale, per noi, quanto mille morti “del terzo mondo”. Abbiamo cominciato a contare i morti di questa guerra quando è toccato a noi. Quando toccava a loro, alla povera gente magrebina che difendeva la propria libertà e la propria integrità fisica, non abbiamo nemmeno fatto partire il conteggio.
Da La Repubblica del 21/03/2015.
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