PALERMO . In due giorni abbiamo visto due Palermo. Quella di un abbraccio che ha spazzato via ipocrisie e imposture e quella di una città che preferisce dimenticare. Sono due volti, due segni.
Ce ne ricorderemo a lungo di quel gesto forte e fuori da ogni protocollo presidenziale fra le colonne e i marmi del Palazzo di Giustizia palermitano che ci ha restituito un altro 19 luglio, il Capo dello Stato Mattarella che attira a sé il figlio del procuratore Borsellino per stringerlo, con il viso dell’uno che scompare fra il petto e la spalla dell’altro.
Ma ci ricorderemo anche del deserto di via Mariano D’Amelio, la strada dove ventitré anni fa il magistrato fu ucciso da un’autobomba con cinque poliziotti (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina) e dove ieri neanche in trecento — solo una cinquantina i palermitani, tutti gli altri volontari di associazioni provenienti da varie regioni d’Italia — si sono riuniti alle 16,58 per commemorarli con un minuto di silenzio.
Due Palermo vicine e lontane, memoria che si confonde con l’oblio, dolore e indifferenza, paure. Da una parte un Presidente della Repubblica che con un abbraccio si è schierato contro la falsificazione di celebrazioni e ricorrenze andate in scena con pennacchi e fanfare, passerelle e proclami.
Dall’altra il silenzio e il vuoto sul luogo della strage, sindacalisti delle forze dell’ordine in maglietta azzurra, Salvatore Borsellino, il sindaco Orlando e il primo cittadino di Messina Accorinti, il questore Guido Longo, il sovrintendente del teatro Massimo Francesco Giambrone, i sostituti del processo sulla «trattativa» Stato-mafia Di Matteo e Tartaglia, l’ex presidente del Tribunale Leonardo Guarnotta (vicino di stanza di Paolo Borsellino quando tutti e due erano nel pool dell’ufficio istruzione), il procuratore di ReggioCalabria Federico Cafiero De Raho, l’«indio» — un agente di scorta di Falcone, sfuggito alla strage solo perché il giorno prima si era rotto una gamba cadendo da una scala — i ragazzi di Addiopizzo e qualche «reduce» dell’antimafia dei primi Anni Ottanta. Loro e solo loro in via Mariano D’Amelio: Palermo non c’era.
Giornata di afa e giornata di mare, tutti a Mondello mentre nelle desolate vie della città si diffondono fin dal primo pomeriggio i contrattacchi del governatore Rosario Crocetta in un crescendo parossistico: «Non mi dimetto più», «Io trattato come uno stragista », «E’ un golpe», «Lucia si fida di me».
Come se ieri l’altro nulla fosse accaduto dentro le austere stanze del Tribunale di Palermo, come se quell’abbraccio del Presidente non ci fosse mai stato, come se Manfredi Borsellino non avesse mai pronunciato quel commovente discorso «sul calvario» di sua sorella alla corte del governatore precisando che era lì e che stava parlando «indipendentemente dalle indiscrezioni giornalistiche su una frase». Il riferimento alla famigerata telefonata sulla «fine» che avrebbe dovuto fare Lucia.
Ma Crocetta dal suo buen retiro di Castel di Tusa finge di non avere mai sentito tutto questo. E di non avere mai visto sugli schermitivù quell’avanzare lento del Presidente verso Manfredi, quella stretta che più di tante parole ha rappresentato il dolore e lo sdegno di due palermitani molto vicini, entrambi colpiti violentemente negli affetti familiari — un fratello, un padre — a distanza di dodici anni uno dall’altro.
Articolo intero su la Repubblica del 20/01/2015.
[…] I due volti di Palermo, da Mattarella al deserto di via D’Amelio di Attilio Bolzoni – la Repubblica -Triskel182 […]