DA 30 ANNI Anche oggi, con la vicenda Crocetta-Borsellino, sempre lo stesso refrain: quando in Sicilia la politica viene toccata, torna la storia dei “professionisti dell’antimafia”. E così si distoglie l’attenzione.
Quasi trent’anni e ancora lì siamo. Nei giorni del caso Crocetta, dell’intercettazione-fantasma e del ritorno (o della continuità?) della Palermo dei veleni. Siamo anc o r a a i “ p r o f e s s i o n i s t i dell’antimafia”. Viene perfino pudore a parlarne. Ma siccome c’è un vasto mondo che ne discetta sferzante e c’è una variopinta umanità che sembra inventata apposta per dargli ragione, occorre prendere l’argomento per le corna. Sapendo di attirarsi gli strali degli uni e degli altri. Strane creature, questi professionisti. Nacquero per decreto mediatico-politico nel gennaio dell’87 (il 10 gennaio per la precisione) grazie al titolo di prima pagina che sul Corriere della Sera annunciava un lungo articolo interno di Leonardo Sciascia. Furono da subito una specie umana deplorevole, messa all’indice dall’intellettuale scomodo per antonomasia, benché nell’occasione comodissimo al Palazzo. Lodarono infatti Sciascia tutti i giornali e le tivù, tutti i partiti, di governo e non,tutti i sindacati.Destino raro per gli anticonformisti. Ricordiamolo dunque, per chi non era ancora nato e per chi era adulto e si ostina a non volere ricordare: all’origine d itutto vi era stata la nomina di Paolo Borsellino a procuratore capo di Marsala.
BORSELLINO AVEVA vinto quel posto nella mafiosissima provincia di Trapani per gli straordinari meriti acquisiti sul campo, tra cui l’istruzione con Giovanni Falcone del celebre maxiprocesso di Palermo,alloraincorso.Eun magistrato concorrente se ne era adontato: e dove stiamo mai finendo, che i magistrati non vengono scelti a quei posti per anzianità o per titoli formali ma per capacità specifica, di indagare e di rischiare? Aveva perciò rappresentato le sue doglianze allo scrittore. Che raccogliendole e argomentandole per una pagina intera sul Corriere aveva perentoriamente così concluso: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più,in Sicilia,per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”.Cinqueanni dopo Borsellino fece carriera saltando per aria in via D’Amelio. Ed è precisamente questo che è un po’ scomodo ricordare.Perché in realtà Sciascia aveva dato voce a un fastidio crescente. Fino all’alba degli anni ottanta infatti non esisteva in Italia un movimento antimafia. Nacque sull’onda dei delitti eccellenti del ’79-‘82 coagulandosi intorno ad alcuni magistrati e poliziotti, familiari di vittime, preti di frontiera, singoli giornalisti, singoli politici. Conquistando un seguito del tutto imprevedibile tra insegnanti e s t u d e n t i . E s u s c i t a n d o , all’opposto, un formidabile moto di insofferenza in un potere che con la mafia trescava in affari e voti e trovava impertinente questa rivolta che non si esauriva nelle lacrime davanti alle bare o nelle denunce giornalistiche da sfornare rituali e “coraggiose” dopo i grandi delitti. Ma che con intransigenza faceva nomi e chiedeva giustizia, cercando pure di costruire una nuova sensibilità civile. Tutti i giorni che Dio mandava in terra. Per questo il movimento divenne oggetto di un processo di delegittimazione morale come nemmeno la mafia aveva subito. I magistrati divennero “protagonisti”; i familiari “una nuova più nobile mafia”;gli avvocati delle parti civili, altra novissima specie, “giureconsulti da corteo”; i sindaci “esibizionisti” (Leoluca Orlando, pur non nominato, era stato oggetto dell’invettiva di Sciascia). TUTTI FURONO battezzati a tambur battente “giustizialisti” e “intolleranti” (e in effetti intolleranti verso la mafia un po’ lo erano…), mentre gli insegnanti che li sostenevano divennero “giacobini” alla testa di studenti “khomeinisti”. Venne coniato un intero vocabolario per portare tutti sul banco degli imputati. Colpevoli, insieme, di non mollare. Come se fossero appunto dei “professionisti” dell’antimafia. Ma professionisti bisognava essere. Perché dall’altra parte lo erano eccome. E perché,comeinsegnavaGiovanni Falcone, la mafia non può essere combattuta da dilettanti allo sbaraglio. O da gente che ci pensa una volta all’anno. La differenza vera, felicemente teorizzata da un mio giovane laureato, si sarebbe rivelata in realtà quella tra “carrieristi” e “professionisti”.E di carrieristi in nome dell’antimafia purtroppo ce ne sono stati. Tanti. Solo che difficilmentelitroverestetra i professionisti. Stanno invece fra i dilettanti. O tra i mestatori. Persone che hanno goduto dell’appoggio del potere,pronto a legittimarli per interesse con quella nobile etichetta. Oppure dell’appoggio dei social, perennemente pronti a creare miti ed eroi mai sperimentati sul campo. Mi permetto in proposito di rinviare al mio Benvenuti al circo dell’antimafia uscito su queste pagine nel dicembre del 2013. È stato un diluvio. Il tale magistrato fu “impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi, che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tale è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un nullasapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti (poi purtroppo ci sono quelli veri)? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui.E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con “gli antimafiosi da tastiera” che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco. E non è finita.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 27/07/2015.
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