Da oggi online “Non c’è problema” prodotta da Repubblica e Cattleya.
QUANDO qualcuno mi chiede “perché non c’è più un giornale come Cuore ”, o peggio “perché non rifate Cuore ?”, rispondo che rifarlo, oltre che patetico, sarebbe impossibile. Perché di satira ce n’è ancora molta, ma è altrove. Non nasce e non vive più in quella stretta dipendenza dalla politica e dal giornalismo che ha ispirato, e fatto campare, generazioni di autori. La satira, fino a vent’anni fa, era quasi tutta concentrata nelle librerie e nelle edicole. Soprattutto quella che in televisione ( la televisione generalista di allora) non poteva trovare accoglienza. O che nel cinema era spesso schiacciata dalla grevità della commedia ridanciana.
Abitava nelle mazzette dei quotidiani e dei settimanali. Viveva al tempo stesso in simbiosi e in contrapposizione con quella cultura politica che appassionava la quasi totalità degli italiani: nove su dieci andavano a votare. Ora quattro su dieci non ci vanno più; e anche per quelli che ci vanno, l’appartenenza politica è molto meno determinante. Anzi, non è neanche un’appartenenza.
Lo spirito comico e l’intenzione satirica hanno dunque dovuto spostarsi. In tutti i sensi. Mettersi in viaggio, cercare i bersagli altrove e il pubblico altrove, sperimentare situazioni e linguaggi diversi, veicoli diversi. Per cercare segni inediti, idee in movimento, ci si deve buttare nel mare magnum del web. Con il rischio di affogarci per quanto è vasto.
È lì che una miriade di blogger e vlogger, disegnatori e battutisti cerca di farsi le ossa, in ordine sparso o consorziati in piccoli gruppi e sotto una stessa “testata”. Ed è sempre lì, in quel brodo primordiale che è la rete, che linguaggi “classici” come il cinema e la televisione cercano di rigenerarsi, trovare nuove giustezze, nuovi formati.
I primi quattro “episodi” (ma non so neppure se si dice così…) della webserie di Luca Ravenna per Repubblica online, Non c’è problema , durano circa cinque minuti l’uno. Per Ravenna, che si è formato soprattutto nel cinema, dev’essere stata una bella scommessa. Ma è giovane, e dunque adattabile; e poi è bravo, e dunque sa come destreggiarsi dentro sceneggiature “strette”, nelle quali ogni parola deve contare e non può essere sprecata. Della brevità – lo dico da “vecchio” – io dubitavo. La brevità mette fretta, costringe a stipare in poco spazio molte cose, anzi troppe cose. Si vedono in giro montaggi vagamente nevrastenici (penso a certi videoclip musicali) che levano il fiato, e non in senso buono. Invece questi racconti brevi respirano, hanno perfino indugi da cinema “vero”, si vedono le facce, si vedono gli sguardi, si seguono i dialoghi senza l’ossessione che tutto debba restare rinchiuso in un attimo. Ravenna, quando ha la sua idea in mano, non la spara, non la spreca, non la strilla. Ci lavora sopra. E questo era un discorso “formale” ma decisivo, perché ogni rivoluzione mediatica è appunto, prima di tutto, una rivoluzione formale, di metraggio, di calibro, di confezione: e per uno spettatore diciamo così di lungo corso come me, è importante ritrovarsi “comodi” anche se ci si siede su poltrone molto differenti, molto modificate. Si cambia, ma senza sentirsi del tutto sradicati da un linguaggio (quello cinematografico di Ravenna, per esempio) che ci è familiare come il pane, e senza il quale ci sentiremmo deprivati… Quanto ai contenuti, di quanto “old style” sia diventata la satira politica e dunque sui politici (perfino nella formidabile interpretazione che può darne un gigante come Crozza) ho già detto all’inizio. Ma per fortuna le sopravvive la satira sociale, ovvero la satira su noi stessi, e Luca Ravenna lo sa, e su quella materia lavora: i nostri comportamenti, le nostre fobie, i nostri pregiudizi. La satira sociale è più “moderna”, non ha le gambe corte della cronaca, tanto è vero che di Cuore (giornale di un quarto di secolo fa) sopravvive soprattutto il ricordo della presa per i fondelli, su vasta scala, del consumismo isterico, del bullismo sociale di fine anni Ottanta, della vanità da finti ricchi.
Di Craxi e di Cossiga ci siamo oramai quasi dimenticati, delle vacanze “esclusive” e delle mode sceme no, anche perché ci siamo ancora in mezzo. Così, nei “supercorti” di Ravenna, mi ha fatto felice ritrovare, per esempio, aggiornato ai tempi, il tema della “proposta commerciale” abbindolatrice e ridicola, in questo caso un’agenzia di pompe funebri che garantisce una rivincita “social”, dunque postuma, al cliente terrorizzato dall’idea, dopo il decesso, di perdere il controllo della propria immagine. E il cliente ci crede: perché la vanità rende deboli.
Articolo intero su La Repubblica del 29/10/2015.
Lascia un commento