Caro poliziotto che fermi i sospetti per strada,
ti ho visto ieri, all’Esquilino, con un collega e due tizi davanti: arabi, dall’aspetto, e malmessi negli abiti così come nel portamento.
E mentre vi vedevo – tutti e quattro, più o meno coetanei tra di voi – ho cercato di immaginare i vostri stati d’animo, in questi cupi giorni di paura e di allarmi: voi due in divisa a rischiare la vostra pelle per salvare la nostra, gli altri due che esibivano una (finta?) indifferenza nell’aspettare la fine del controllo, sigaretta in bocca e sguardo verso il cielo.
Ecco, caro poliziotto, mentre tu facevi il tuo lavoro e io tornavo dal mio, e su Roma ormai era buio e la gente cambiava marciapiede, mi sono chiesto quanto sei consapevole che la pelle ce la devi salvare due volte, a questo giro: non solo esponendo il tuo corpo a quelli che potrebbero essere terroristi – sì, ce ne sono, di potenziali o effettivi, anche qui in città – ma anche sforzandoti di fare quello che probabilmente non ti hanno insegnato e sicuramente non ti viene naturale.
Intendo dire che, appunto, i potenziali assassini ci sono, a Roma come altrove, ma saranno uno 0,0001 per cento (anzi, meno) degli arabi che ci passano accanto. Quindi ci sono altissime probabilità – per fortuna tua e di tutti – che stai fermando un tizio il quale con Daesh non c’entra nulla: e se nella vita ha visto un’arma è solo perché qualcuno gliel’ha puntata contro, mentre tentava di venire in Italia.
Adesso, amico poliziotto, anche da come tu parli con quel tizio dipenderà quello che lui sarà nei prossimi mesi, nei prossimi anni.
Dipenderà cioè quanto si sentirà convinto di essere stato vittima di pregiudizio, per essere stato fermato proprio lui con il colorito più grigiastro, i lineamenti del viso appena più curvi, gli abiti comprati chissà se nuovi o usati in una bancarella di quelle tutto a cinque euro.
Perché vedi, agente, a te probabilmente sembrerà una sciocchezza ma forse in futuro potrebbe cambiare qualcosa – nell’animo di quel tizio – anche da variabili che tu oggi consideri futili ma tali non sono: tipo se gli darai del tu o del lei; se sarai cortese o arrogante; se alla fine – nel caso fosse tutto in regola – gli chiederai o no scusa per il disturbo e il tempo perso, esattamente come ha fatto un tuo collega con me quando l’altro giorno, in completo grigio, ho preso per sbaglio in moto una via chiusa al traffico al Ghetto.
Ecco: forse ora penserai che questo è buonismo – quindi “sbagliato”, nella categorizzazione che hai ascoltato in giro; o forse crederai che sia un’umiliazione inaccettabile, per te italiano, dover trattare da signore un mezzo barbone arabo; o ancora, mi risponderai che non è tempo di usare guanti bianchi perché “siamo in guerra”, e così via.
E non cercherò di convincerti del contrario con argomenti politici o simili, che comunque non ti piacerebbero: semplicemente, se puoi ascoltarmi, ti racconterò di tanti casi di immigrati che hanno iniziato a radicalizzarsi, e a frequentare i peggiori imam, anche perché qui in Europa si sono sentiti stranieri, inaccettati, diversi, insomma cittadini di serie B.
No, non li sto giustificando, agente: perché se uno sceglie di diventare assassino ne porta tutta la responsabilità; né ti sto dicendo che saràdeterminante nel suo futuro proprio il tuo rispetto o irrispetto, perché le cause di scelte sciagurate sono sempre molte e ben intrecciate. Ti sto solo dicendo che hai un ruolo anche tu, come ce l’ho io, nella riuscita della famosa integrazione. Forse tu un po’ di più, perché rappresenti lo Stato (quindi noi tutti) e il tuo lavoro ti porta a interagire ogni giorno con più arabi dall’incerta integrazione di quanto non capiti a me.
Ecco, ogni volta che ne fermi uno, se puoi, ti chiedo di rivolgerti a lui come ti rivolgeresti a me, bianco cinquantenne incravattato che parla un perfetto italiano.
Fallo insomma sentire uno come gli altri, parte del nostro Paese, della nostra comunità.
Potresti salvarmi la vita due volte, in questo modo, e io te ne sarei ancora più grato.
Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it
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