Francesco: “Gli ebrei nostri fratelli maggiori” L’abbraccio con i sopravvissuti della shoah.
ROMA – «Cari fratelli maggiori, shalom». Pace, dice Papa Francesco in ebraico. C’è un lungo applauso, la folla di invitati alla sinagoga di Roma si alza in piedi, pure la prima fila riservata ai sopravvissuti dell’Olocausto. È fatta tutta di ultimi testimoni diretti della Shoah. Da vicino, il Pontefice li accarezza con lo sguardo. Il rabbino capo Riccardo Di Segni osserva Jorge Bergoglio, fa un passo, e c’è un abbraccio. Sorrisi ampi. E un’atmosfera distesa e di vera festa.
Al Tempio Maggiore ebrei e cristiani fanno un nuovo passo verso la conoscenza. E nonostante le differenze, le diffidenze, il passato e le divisioni, la terza visita di un Pontefice nella sinagoga romana diventa, ammette Di Segni, «chazaqà», cioè «consuetudine fissa». Perciò questo terzo appuntamento concordato con Francesco, dopo quello inaugurato da Giovanni Paolo II nel 1986 e rafforzato da Benedetto XVI nel 2010, è destinato a perpetuarsi. Nel segno di «comprensione reciproca, mutua fiducia e amicizia», concorda il Papa. Perché «ebrei e cristiani devono sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio». Ma, soprattutto, perché «non bisogna mai dimenticare la lezione della Shoah». Poi il richiamo all’oggi: «Conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche».
Nel pomeriggio gelato di Roma la sinagoga sul Lungotevere è piena di gente. I controlli di sicurezza estenuanti. All’interno tutti gli uomini invitati indossano sul capo la kippah. Bergoglio arriva. Ha già sostato davanti alla lapide del 16 ottobre 1943, giorno della deportazione dei mille ebrei romani da parte delle SS, e anche sul luogo che ricorda l’uccisione nel 1982 del piccolo Stefano Gaj Taché per un attacco terroristico.
Poi è la volta dei quattro discorsi che segnano il cuore dell’evento. Non un appuntamento politico, né un confronto storico, quanto un incontro dal significato spirituale. Capace, però, di sortire frutti. «Lei, Papa Francesco — dice la presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello — si è rivolto al nostro rabbino capo dicendo che “un cristiano non può essere antisemita”. Non possiamo essere spettatori. Non possiamo cadere negli errori del passato, fatti di silenzi assordanti e teste voltate».
Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, parla di «una nuova era» che «sta avendo negli anni più recenti una ulteriore accelerazione per suo merito». Oggi, continua, «cristiani ed ebrei sono costretti a difendersi da spietati nemici, violenti e intolleranti, che stanno usando il nome di Dio per spargere il terrore. La salvezza per tutti può venire solo dalla formazione di una forte coalizione». Molto apprezzate anche le parole di Di Segni. Il rabbino capo articola un parallelo con il Giubileo proclamato da Francesco, e prefigura poi una lontana unione futura: «Non ci è sfuggito il momento iniziale in cui all’apertura della porta è stata recitata la formula liturgica “aprite le porte della giustizia”.
Articolo intero su La Repubblica del 18/01/2016.
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