«Il risultato di Napoli non è in discussione», dice Debora Serracchiani sulla prima pagina dell’Unità di oggi e viene da chiedersi con quali criteri di certezza basi la sua affermazione: dato che tra il primo e il secondo arrivato ci sono meno di 500 voti di differenza, dato che alcuni brogli sono stati documentati, dato che è stata avviata un’indagine della magistratura in merito e dato che c’è pure un ricorso ai garanti del Pd del candidato arrivato secondo.
A proposito: è curioso il fatto che nella sua veste di vicesegretario del partito Serracchiani anticipi così il verdetto dei garanti in questione – evidentemente considerati dei notai che devono fare ciò che i capi vogliono. Del resto anche il presidente del Pd aveva detto esattamente la stessa cosa ieri – «non c’è discussione» – alla faccia della neutralità formale che i vertici dovrebbero tenere tra due contendenti del loro partito.
Il tutto potrebbe venire derubricato a questione interna al Pd, e di fatto – nei contenuti specifici – lo è. Personalmente poi non ho alcuna simpatia per Bassolino maggiore di quelle che abbia per Valente, cioè zero in entrambi i casi. Il punto non è parteggiare per l’uno o per l’altra: il punto è questa subcultura trasversale del «non c’è discussione» anche di fronte all’evidenza che una discussione ci dovrebbe essere, eccome, visto quello che è venuto e sta venendo fuori.
Perché è esattamente la stessa subcultura – lo stesso approccio cognitivo – che buona parte della classe dirigente renziana applica a tutto, anche fuori dal Pd: una profonda allergia alla discussione vista come inutile perdita di tempo, come lacciolo che impedisce “il fare”, il correre, l’arrivare al risultato.
Che poi è lo stesso approccio che porta ai mille canguri in aula e ai mille voti di fiducia pure su leggi non fondamentali, ma anche a ridurre una delle due camere a una pagliacciata di yesmen nominati dai partiti tra i più fedeli negli enti locali.
Non è esclusiva dei renziani, quest’approccio, sia chiaro. C’è anche nei pentastellati e lo dico del tutto al netto del presunto scandalo sulle mail spiate, che per quanto si è visto finora mi sembra di dubbio fondamento.
Resta il fatto che i tratti di autoritarismo non appartengono solo a questo o a quel partito ma sono una subcultura diffusa e trasversale, figlia di un’idea – molto coerente con la visione della vita aziendalista e tecnocratica – secondo cui il confronto è noioso e fa appunto perdere tempo, in una società che va troppo in fretta per potersi fermare un attimo a pensare, a valutare, a soppesare, a far maturare le decisioni in onestà intellettuale.
Non credo di andare lontanissimo dal vero se ipotizzo che questo approccio cognitivo sia figlio anche (anche, non solo) dei vent’anni di egemonia berlusconiana sul senso comune, in questo Paese. Del resto è evidente che i veleni lasciati dal berlusconismo sono ancora parecchio in circolazione – non era possibile altrimenti – e sono tracimati molto al di fuori dell’area politica nella quale sono nati.
In generale nella vita, comunque, «non c’è discussione» un cacchio. Discussione è ragionamento, riflessione, autoconoscenza, dubbio, confronto, approssimazione graduale verso il meglio. Discussione è logos, parola, pensiero, libertà, democrazia.
E, by the way, «non c’è discussione» di solito lo dicono i cattivi capi e i despoti, quando temono che la discussione possa portare a un risultato diverso dalla loro volontà e convenienza.
Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it
Fossi in Gilioli comincerei a pensare al trasloco in altro gruppo editoriale…..