L’intelligence comune è una ragnatela di burocrazia Solo dopo la strage di Charlie Hebdo nel Vecchio continente è cominciata una vera collaborazione.
Dal 2001 a oggi, l’Ue non è riuscita a creare un organismo unitario Con regole diverse e apparati lenti non si fermano i jihadisti.
DOPO ogni strage si alza un coro di grandi progetti, che finiscono lentamente insabbiati nella solita piccola politica di Bruxelles. In questo settore le gelosie nazionali sono massime e finora si è cercato solo di allestire organi che facessero da consulenti ai paesi meno capaci, senza mai pretendere un ruolo da protagonisti. Così, quindici anni dopo le Torri Gemelle, l’Europa si trova di fatto senza organismi unitari per fronteggiare una minaccia globale, che colpisce e prospera sfruttando anche la disparità di legislazioni e apparati preventivi.
La violenza jihadista ha già devastato Bruxelles, Parigi, Londra e Madrid ma si sta ancora discutendo di come condividere le informazioni, ossia di come raggiungere un minimo comune denominatore: persino il regolamento sullo scambio dei dati sui biglietti aerei si è arenato nelle stanze delle procedure infinite.
Dal 2001 a oggi l’Europa, contrariamente agli Usa, non ha voluto dare una risposta al dilemma del rapporto tra libertà e sicurezza mentre la sfida fondamentalista assumeva dimensioni mai viste, quelle che adesso spingono il premier francese a usare la parola «guerra«. E chi c’è in prima linea a difendere l’Ue? Non esiste un commissario che abbia le funzioni di “ministro dell’Interno” e queste responsabilità sono sparse tra varie figure. Abbiamo però uno “zar antiterrorismo”, ma è una figura pallida di coordinatore che guida un’istituzione senza peso con uno staff minuscolo. L’attuale, Gilles de Kerchove, è un belga in carica dal 2007: un euroburocrate, che ha sempre fatto il funzionario nei palazzi dell’Unione, senza esperienze in materia di legge e ordine. Tutti gli altri orgasmi appaiono permeati dallo stesso stile impiegatizio. Prendiamo Europol, che si propone come l’hub delle informazioni criminali: dovrebbe essere la fucina di quello scambio di intelligence che adesso tutti invocano. E ha pure un direttore, il britannico Rob Mark Wainwright, con un curriculum da vero 007 visto che viene dai ranghi dell’MI5. Cosa fa? Dal 2001 gli organici sono passati da 323 a 940 persone, che si occupano di tutto, dalle frodi telematiche alle mafie. Un quarto sono olandesi, non perché brillino come poliziotti, ma perché la sede è a l’Aia e bisogna rispettare le consuetudini lottizzatorie. Solo due mesi fa è stato infine inaugurato un centro antiterrorismo, sempre a l’Aia, anche se nel 2015 soltanto il tre per cento del bilancio è servito per migliorare le tecniche di contrasto agli stragisti. E questo nonostante mister Wainwright dopo il Bataclan abbia riconosciuto che si tratta del pericolo più grave mai vissuto dalla Ue.
Eurojust invece è un pool di 28 magistrati, uno per ogni paese membro, con uno staff di 260 persone: dovrebbero coordinare le autorità giudiziarie nazionali eppure stentano a far decollare persino la collaborazione con Europol.
Per questo all’indomani del massacro di Charlie Hebdo i servizi segreti europei hanno cominciato seriamente a scambiarsi alcune informazioni chiave, ma sfruttando canali informali e allacciando poi rapporti diretti con gli apparati dei paesi arabi: relazioni che spesso sono personali, come vuole la tradizione dell’intelligence. Ad esempio, da allora vengono condivise le notizie su migliaia di volontari che hanno raggiunto il Califfato in modo da intercettarli quando tentano il viaggio di ritorno verso l’Italia, il Belgio o laFrancia. Perché sono i veterani a trasmettere esperienze alle reclute delle banlieue o imbracciare le armi in prima persona. Questa trasmissione di dati però è inutile se non ha una forma giuridica che la renda ammissibile nei processi di tutta l’Unione. E lo è doppiamente se mancano le leggi per perseguire i reduci della jihad e se queste misure non sono uguali nei 28 stati membri, permettendo a un potenziale kamikaze di scegliere il rifugio nell’area Schengen dove attendere il momento dell’attacco.
Articolo intero su La Repubblica del 24/03/2016.
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