Tre giorni fa il procuratore di Corte San Pietro, Pietro Benelli, da anni impegnato in importanti indagini contro le tangenti e i comitati di affari, ha rotto gli indugi. Stanco dei continui attacchi da parte di politici locali indifferenti alle condizioni di quel paese, considerato il secondo Comune più corrotto d’Italia, Benelli in un convegno ha criticato l’atteggiamento degli amministratori. “Qui – ha spiegato – ci si nasconde dietro lo schema della sentenza. Si dice: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto.
Ma ditemi, voi non ne conoscete di gente disonesta che non è mai stata condannata perché non c’erano prove per condannarla?”. “La magistratura – ha considerato – può fare solo accertamenti di carattere giudiziale. Può dire che ci sono sospetti anche gravi, ma senza avere la certezza giuridica della colpevolezza. Però, quando dalle indagini emergono molti fatti, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali, o quello che sia, dovrebbero trarre le dovute conseguenze da queste vicinanze tra i politici e i comitati d’affari.
Vicinanze che non costituiscono reato, ma che rendono comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. I forti sospetti dovrebbero indurre i partiti a fare pulizia. Dovrebbero spingerli non solo a essere onesti, ma ad apparire onesti espellendo tutti i protagonisti di episodi e fatti inquietanti”.
Qualche ora dopo, in consiglio comunale, ha preso la parola Marco Reni, il giovane sindaco di Corte San Pietro. Il primo cittadino aveva da poco accettato le dimissioni di un proprio assessore – scoperto mentre rivelava alla moglie i contenuti di una delibera della giunta favorevole a una società per la quale la donna lavorava – ed era piuttosto arrabbiato. Non con l’assessore, ma con i giudici. Tra gli applausi ha affermato: “Noi vogliamo che i magistrati parlino con le loro sentenze. Per la Costituzione italiana è condannato un cittadino la cui sentenza diventa definitiva e passa in giudicato”. Poi ha alzato la voce: “Io non attacco la magistratura, ma rispetto la Costituzione: un avviso di garanzia è stato per oltre 20 anni come una condanna definitiva. Vite di persone perbene sono state distrutte, ma un avviso di garanzia non è mai una condanna. Ed è per questo che non chiederemo le dimissioni del membro dell’opposizione Livorni che ne ha ricevuto uno. Questo paese ha conosciuto figure di giudici eroi che hanno perso la vita, ma anche negli ultimi 25 anni pagine di autentica barbarie legata al giustizialismo”.
In Comune, dove molti consiglieri sono sotto processo o militano in partiti con leader definitivamente condannati, c’è stata un’ovazione. Nessuno è stato sfiorato dall’idea che il garantismo debba sempre e giustamente valere in tribunale, ma che nell’aula consigliare sia meglio applicare criteri di semplice buonsenso. Per questo se ne è stato zitto pure l’assessore Rossi che a gennaio, per prudenza, non aveva assunto una badante sospettata dai pm di maltrattamenti. Poco male comunque. Noi elettori possiamo stare tranquilli. Perché Corte San Pietro, il procuratore Benelli e il sindaco Reni, non esistono. Esistono solo le loro parole. Le hanno pronunciate, riferite alle indagini su mafia e politica (il corsivo sui comitati d’affari è nostro), il giudice Paolo Borsellino, tre anni prima di perdere la vita. E, ovviamente, il premier Matteo Renzi. Venti giorni dopo l’esplosione delle inchieste lucane su politica e petrolio.
Da Il Fatto Quotidiano del 23/04/2016.
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