L’analisi.
Il provvedimento approvato ieri prova a limitare il problema politico causato dalle norme Ue. Nonostante Atlante gli attriti restano.
MILANO – C’è un filo rosso che lega il fondo Atlante, presentato ieri dal professor Alessandro Penati in un lussuoso albergo al centro di Milano, e il decreto sulle banche approvato poche ore dopo a Roma dal Consiglio dei Ministri presieduto da Matteo Renzi.
Quattro mesi dopo l’entrata in vigore delle norme europee che prevedono siano gli investitori, e non più i contribuenti, a pagare il costo dei salvataggi bancari, l’Italia prova a evitare le conseguenze più tossiche del cosiddetto “bail-in”.
La doppia mossa sembrerebbe arrivare con il consenso delle autorità europee, con cui più volte l’Italia si è scontrata proprio sul tema del ruolo che lo Stato può ricoprire nel caso di una crisi bancaria. Tuttavia, questa tregua non termina la battaglia intorno al “bail in”, che rischia di riaprirsi in futuro a causa di posizioni fondamentalmente in conflitto tra Roma e Bruxelles.
Il “bail in” prevede che, in caso di fallimento controllato di una banca, le autorità di risoluzione provvedano ad azzerare azioni, obbligazioni e, eventualmente, colpire i conti correnti sopra i 100.000 euro fino a raggiungere l’8% delle passività. Questa procedura è stata in parte seguita nel caso di quattro piccoli istituti di credito lo scorso anno, in cui poco più di 10.000 investitori hanno perso parte dei loro risparmi.Il problema è che in Italia, più che in altri Paesi dell’UE, le obbligazioni bancarie sono nelle mani di privati invece che di investitori istituzionali. Nel Rapporto sulla Stabilità Finanziaria presentato ieri, la Banca d’Italia ha stimato che, escludendo le azioni, il complesso degli investimenti in strumenti che potrebbero essere colpiti dal “bail-in” rappresenta circa il 10% delle attività finanziarie delle famiglie.
La stessa Banca d’Italia è inoltre convinta che il “bail in” acuisca il rischio di instabilità finanziaria, poiché porta gli investitori a perdere fiducia nelle obbligazioni bancarie anche nel caso di istituti sani. Si tratta di un ragionamento che non convince la Commissione Europea, la quale ritiene sia giusto che siano gli investitori a pagare per i rischi che hanno preso comprando obbligazioni e per i quali sono stati remunerati ricevendo interessi. Il problema, piuttosto, è quello di essere sicuri che questi bond finiscano nelle mani di risparmiatori consapevoli dei pericoli associati ai loro investimenti.
Il decreto legge approvato ieri, che prevede rimborsi automatici per alcuni degli obbligazionisti delle quattro banche salvate, prova a limitare il problema politico causato dal “bail in” attuato nel passato recente. Nel frattempo, il fondo Atlante cerca di evitare ci siano altre situazioni di questo tipo, per esempio preparandosi a rilevare quote consistenti della Banca Popolare di Vicenza e eliminando per ora il rischio di risoluzione. «Tutta la struttura del debito della Vicenza è a zero rischio», ha detto ieri Penati, presidente della Quaestio Capital Management, la società che gestirà il fondo. La Commissione Europea sembra aver accettato queste misure, poichè non in contraddizione con le nuove regole sul “bail in”. In un’intervista a Repubblica questa settimana, Margrethe Vestager, commissario alla Concorrenza, ha giustificato i rimborsi automatici da parte del governo italiano come una risposta a pratiche diffuse di vendita indebita di titoli.
Allo stesso tempo, il fondo Atlante, a cui hanno contribuito in larghissima parte le banche italiane, viene visto come una presa di responsabilità da parte degli istituti di credito per rafforzare un sistema in difficoltà.
Vestager resta però fermamente convinta che il “bail in” sia un principio da difendere. L’ex ministro dell’economia danese si è infatti detta scettica dell’idea di una possibile revisione delle regole proposta qualche settimana fa dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Anzi ha insistito che non esistano deroghe all’applicazione di questo strumento legislativo, neppure per ragioni di stabilità finanziaria.
Questa intransigenza rischia di creare conflitti nel caso in cui gli sforzi del fondo Atlante non riuscissero a migliorare significativamente le condizioni del settore bancario, azzoppato da centinaia di miliardi di euro di crediti deteriorati, accumulatisi a causa della crisi economica e di una gestione spesso disinvolta dei prestiti.
La risoluzione di un istituto come Monte dei Paschi di Siena, che più di altri è gravato da questo fardello di incagli e sofferenze, potrebbe portare in teoria a un “bail in” di dimensioni gigantesche.
Articolo intero su La Repubblica del 30/04/2016.
Rispondi