Nel 2014, in Italia, sono fallite 15.605 imprese. Nel 2015 sono state un po’ meno: 14.416. Nessuno ha pensato di istituire un “Fondo di solidarietà per i falliti”. E nemmeno – che sarebbe stato più furbo – un Fondo di solidarietà per i fallendi”: i debiti non pagati a fornitori o finanziatori sono a loro volta causa di dissesto in una catena che non ha fine. Sarebbe stato ragionevole: ogni fallimento è un danno per l’economia nazionale; e – quasi sempre – il sostegno a imprenditori che danno lavoro ad altre persone e si impegnano direttamente nel lavoro quotidiano è eticamente corretto.
Ogni anno decine di migliaia di persone sono vittime di truffa o appropriazione indebita. Le loro possibilità di risarcimento sono legate all’intervento giudiziario, penale e civile; il che vale a dire che sono inesistenti. Ma – anche per loro – nessun “Fondo di solidarietà”.
Tuttavia una categoria di imprese e di cittadini particolarmente privilegiata esiste: le banche e i risparmiatori/investitori. Per costoro fallimento e perdite patrimoniali sembrano inaccettabili, tanto che si prevedono interventi di salvataggio a cura di privati – e fin qui nulla da obiettare – e pubblici, ancorché vietatissimi dalla normativa europea, dall’Italia sottoscritta senza se e senza ma.
Sicché le domande sono due: perché le banche (privati imprenditori tecnicamente falliti, quasi sempre a seguito di vere e proprie gestioni fraudolente a favore di partiti e imprese e persone loro legate) non sono abbandonate al loro destino, proprio come i 15.000 falliti che ogni anno chiudono le loro attività; e perché chi ha investito capitale in queste imprese non è invitato a rivolgersi alla giustizia come qualsiasi altro creditore sfortunato ma gode di un comodo paracadute che lo risarcirà della sua perdita.
Quanto alla prima, la risposta è semplice: perché il dissesto delle banche deriva dai loro legami con la politica. I dirigenti sono scelti in funzione dell’appartenenza politica, senza che professionalità ed esperienza vengano minimamente considerate; le loro remunerazioni sono molto alte, a prescindere dai risultati conseguiti che – è nelle premesse – non possono esistere; la gestione è inquinata da criteri che con una corretta imprenditorialità non hanno nulla a che fare; i patrimoni sono costantemente depredati; le spese inutili ed elevatissime (si pensi alle tante sedi faraoniche). In questa situazione, quando i nodi vengono al pettine, è ovvio che scatta una solidarietà politica che è – in realtà – figlia di complicità precedenti, ricatti temuti e perdurante avidità.
Quanto alla seconda, la tutela dei risparmiatori, deriva da demagogia e necessità di salvaguardare la banca da richieste di risarcimento insostenibili. Già detto della seconda, qualche riflessione sulla prima. Eticamente questa tutela è inaccettabile: il risparmiatore ha optato per l’investimento bancario mentre altri hanno pensato bene di utilizzare il risparmio per scopi diversi, per esempio imprenditoriali. Rendite e guadagni non sono stati condivisi con gli altri cittadini, come è giusto che sia. Perché, quando l’investimento si rivela perdente, e nel solo caso dell’investimento bancario, le perdite dovrebbero essere condivise? “Ma mi hanno truffato!
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 30/06/2016.
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