Il ministro Andrea Orlando l’aveva detto il 17 giugno scorso: entro luglio troveremo l’accordo sulla prescrizione. E così è stato. “Il nodo politico è sciolto”, ha detto ieri. Il Pd e Ncd, o quel che resta del partito di Angelino Alfano, ancora prezioso per la tenuta del governo, hanno trovato la quadra – al ribasso – dopo ben un anno e mezzo, sulla prescrizione in generale e su quella che riguarda i reati corruttivi, al voto in commissione al Senato. Come anticipato, non più due anni di tempo per celebrare l’appello, dopo la condanna di primo grado, ma 18 mesi. Stesso tempo per concludere il giudizio in Cassazione, mentre la legge votata alla Camera il 24 marzo 2015 prevedeva un anno.
Parità, potrà pensare qualcuno, peccato, però, che il tallone d’achille dei processi definiti è proprio l’appello con una incidenza del 23,46%. La Cassazione solo dell’1%. I numeri, dunque, ci dicono che, minimo, doveva restare il testo approvato a Montecitorio. Ma la realpolitik ha vinto. Accordo anche per quanto riguarda la specificità dei reati corruttivi. La prescrizione non più dopo 21 anni e 9 mesi, come previsto dal combinato delle leggi passate alla Camera (anticorruzione e prescrizione) ma dopo 18 anni. Per le modalità tecniche della modifica, in sostanza, resta impossibile perseguire la corruzione se sono passati una decina di anni da quando è stata commessa. Mentre i magistrati avrebbero preferito un semplice raddoppio dei tempi di prescrizione in cambio di un periodo più lungo per le indagini. L’’Anm aveva anche chiesto che la prescrizione, in generale, si fermasse dopo il primo grado. Una proposta avanzata da Felice Casson, indipendente del Pd e relatore della riforma penale. Il suo partito ha provato a dissuaderlo, ma l’ex magistrato ha mantenuto la sua proposta, anche se sa che non passerà.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 21/07/2016.
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