Efficacia del governo, lotta alla corruzione, stato di diritto: peggio di noi solo la Grecia. E anche il Jobs Act non aiuta.
Sul Financial Times Sarah Gordon avverte che se al referendum di ottobre vince il “No”, insieme al governo Renzi potrebbe crollare la crescita e dunque il settore bancario, con “un colpo ancora più serio alle prospettive politiche ed economiche dell’eurozona”. La Banca centrale europea, nel suo ultimo bollettino mensile, certifica che solo la Grecia, nell’Ue, ha istituzioni peggiori di quelle italiane e che dunque urgono riforme strutturali. Sembra che il giornale più letto sui mercati e la Bce dicano la stessa cosa, ma non è così.
Al Financial Times interessa soltanto la stabilità politica, non c’è alcuna aspettativa sull’impatto economico o politico della riforma costituzionale voluta dall’esecutivo. La Bce parte dalla definizione di istituzioni data da Douglass North – “le regole del gioco in una società o, detto in modo più formale, i vincoli progettati da uomini che danno forma all’interazione umana” – e studia il rapporto tra la loro qualità e la crescita. Nessuno dei punti qualificanti per individuare istituzioni funzionanti rientra nella lista di problemi che la riforma Boschi vuole affrontare (velocità di approvazione delle leggi, superamento del bicameralismo, revisione delle norme su leggi di iniziativa popolare, con l’appendice di una nuova legge elettorale).
La Bce usa quattro indicatori elaborati dalla Banca mondiale: efficacia del governo, qualità della regolazione, rispetto dello stato di diritto, controllo della corruzione. Tutte cose molto difficili da calcolare, la Banca mondiale si affida quindi alla percezione dei cittadini raccolte tramite sondaggi. Quindi, in realtà, non misura la corruzione ma la corruzione percepita. Per quanto approssimato, sostengono gli economisti della banca mondiale, è una misura efficace: quando si fanno confronti con parametri oggettivi misurabili, i risultati non sono molto diversi dalle percezioni. E le persone, osserva la Banca mondiale, prendono decisioni sulla base di quello che pensano, non di indicatori oggettivi: se un imprenditore è convinto che per investire in certe zone d’Italia sia necessario pagare mazzette, poco importa se qualche parametro statistico sembra indicare il contrario.
Se prendiamo per buoni questi indicatori, la conclusione a cui arriva la Bce è la seguente: in Italia le istituzioni sono un disastro e questo sembra determinare una bassa crescita strutturale, nel senso che sembra esserci una forte correlazione tra l’andamento dell’economia negli ultimi 15 anni e la qualità (percepita) dello stato di diritto, l’efficacia della lotta alla corruzione, la chiarezza delle regole e l’efficacia del governo. Insieme alla zavorra del debito pubblico, le istituzioni sono la variabile decisiva per capire le prospettive di un Paese nel medio termine.
Istituzioni forti permettono alla politica di affrontare in modo efficace due settori cruciali per la crescita: la Pubblica amministrazione e il mercato del lavoro. Da anni la Bce di Mario Draghi ha una linea molto netta sulla “resilienza” che serve alle nostre economie: quando c’è una crisi, i salari e i prezzi relativi devono potersi adattare molto in fretta. I prezzi dei prodotti meno richiesti devono scendere, insieme agli stipendi di chi li produce, mentre saliranno quelli dei settori che ancora tirano. Se c’è rigidità, le imprese sono costrette a licenziare.
Ci sono molte obiezioni possibili a questo principio facile da enunciare e difficile da applicare. Una la ammette la stessa Bce: “La riforma degli strumenti di protezione dell’impiego e dei sussidi di disoccupazione dovrebbe produrre effetti positivi nei tempi buoni, ma può avere conseguenze negative sulla distribuzione (del benessere) nel breve e medio periodo in tempi di stagnazione”. Come dire: abolire l’articolo 18 e liberalizzare i voucher con la crescita a zero, come ha fatto l’Italia, non porterà le conseguenze positive attese dai sostenitori della riforme.
Tutta l’analisi della Bce muove dai lavori di due influenti economisti, Darren Acemoglu e James Robinson, che hanno sviluppato una teoria istituzionalista della crescita.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 12/08/2016.
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