Abbiamo le norme antisismiche migliori al mondo ma facciamo pochi interventi nonostante gli sgravi fiscali previsti. Ecco come mettere in sicurezza gli edifici.
Cuscinetti speciali e pilastri così le case possono resistere.
IL RISCHIO è noto. Le norme antisismiche fra le migliori al mondo. E l’ingegneria oggi promette “danni zero” o quasi. Perché allora quelle vittime, in un sisma classificato come “moderato”, un gemello del quale ad aprile in Giappone aveva causato nove morti?
Perché in Italia le norme antisismiche sono recenti e le case antiche. E perché — è la risposta provocatoria di alcuni esperti — di terremoti ne vediamo troppo pochi. «Le grandi tragedie ci colpiscono ogni 4-5 anni, poi ce ne dimentichiamo» spiega Paolo Clemente, ingegnere dell’Enea, capo del laboratorio Prevenzione rischi naturali e mitigazione effetti.
«Per un anno discutiamo, organizziamo convegni, prendiamo impegni. Poi l’interesse si esaurisce» conferma Gianmario Benzoni, ingegnere che dal Politecnico di Milano si è trasferito all’università della California di San Diego. Racconta Benzoni che «la Regione Umbria, dopo un sisma di molti anni fa, erogò dei soldi per ristrutturare le case danneggiate. Buona parte fu spesa per rifare il bagno o comprare la cucina nuova». Alla scienza — punta poi il dito Richard Allen, direttore del Seismological Laboratory di Berkeley — «continuiamo a chiedere di prevedere i terremoti. Ma che senso ha? Prima di tutto non è un obiettivo raggiungibilenel futuro prossimo. Poi i sismi continuerebbero comunque a distruggere le città. La soluzione giusta è costruire case resistenti. L’esempio di Norcia rimasta in piedi ne è la dimostrazione lampante».
Gli edifici nuovi devono essere resistenti per legge. Quelli vecchi possono essere adeguati al rischio sismico della zona con un intervento ad hoc, a carico dei proprietari. Ma è poco realistico che un privato decida da solo di spendere 100-300 euro al metro quadro per installare cuscinetti antisismici sotto ai pilastri o controventi dissipativi fra un solaio e l’altro. «Da noi in California lo stato offre incentivi fiscali importanti », spiega Allen. «La nostra università ha appena speso 2 miliardi di dollari per il retrofitting, cioè l’adeguamento antisismico di edifici che risalivano agli anni ’60 o ’70. I privati che vendono una casa riottengono indietro metà delle tasse se l’aveva ristrutturata ».
Ma forse neanche quello è il punto. Anche l’Italia infatti dal 2013 prevede il rimborso del 65% delle spese in 10 anni. Eppure gli interventi di retrofitting restano rari. Il 70% degli edifici — stima un’indagine conoscitiva della Camera sulla sicurezza sismica — non è adeguato al rischio sismico della zona in cui sorge. E probabilmente mai lo diventerà (ci vorrebbero in tutto 36 miliardi).
Il 64% delle nostre case è stato realizzato prima che un’efficace normativa antisismica entrasse in vigore, negli anni ’70. E si è dovuti arrivare al 2009, dopo L’Aquila, affinché una giungla di norme aggirabili senza troppi patemi fosse raccolta in un testo unico, valido ovunque. «L’applicazione delle leggi e l’accuratezza dei controlli restano però nodi in parte irrisolti» ammette Clemente. «Uno dei nostri punti deboli — aggiunge Benzoni — è anche la vasta presenza di case in muratura. Sono edifici pesanti e che tendono a sbriciolarsi». Nemmeno il modello Giappone che tanto spesso viene tirato in ballo convince fino in fondo gli esperti italiani. «Lì buttano giù e ricostruiscono dopo pochi anni» spiega Clemente. «Se la trave di legno di un tempio marcisce, la sostituiscono. Noi abbiamo un’attenzione diversa per la nostra storia e per i restauri».
In Italia, è la conclusione dell’ingegnere dell’Enea (ma non solo) «ci vorrebbe un’assicurazione obbligatoria. Basterebbero 100 o 200 euro all’anno sui 32 milioni di edifici del nostro paese per bilanciare i quasi 3 miliardi di euro spesi per affrontare le emergenze». Che in realtà, sottolinea Antonio Coviello, economista del Consiglio Nazionale delle Ricerche, «è sempre il cittadino a spendere, anche se inconsapevolmente. L’assicurazione almeno fungerebbe da incentivo per la prevenzione». E andrebbe accompagnata, aggiunge Clemente, da un censimento degli edifici: «Facciamo la revisione dell’auto ogni due anni e non sappiamo nulla sulla salute della nostra casa».
È verso queste soluzioni che probabilmente andremo a parare, quando l’ennesimo terremoto ci farà superare la misura del dolore. «Certo, però abbiamo dimostrato di avere la testa proprio dura» commenta Benzoni. «Le batoste pesanti non ci sono mancate». La tecnologia di cui l’ingegnere di San Diego si occupa riguarda l’isolamento antisismico. «Si fa uno scavo sotto ai pilastri e si inseriscono dei dispositivi che separano l’edificio dal suolo. Sono interventi applicabili quasi ovunque. Li abbiamo realizzati anche sotto strutture complesse come la City Hall di San Francisco».
Politica ed economia, sembra di capire, sono i pilastri deboli del nostro sistema antisismico. Ma la scienza, che non smette di sforzarsi per comprendere i terremoti, ha qualcosa da rimproverarsi? «È importante che le mappe del rischio sismico siano sempre aggiornate» sostiene Allen. «È fondamentale anche capire con maggiore precisione l’intensità con cui il terreno si scuote» aggiunge Gregory Beroza, professore di geofisica a Stanford. «È su questi dati infatti che gli ingegneri si basano per costruire edifici sicuri».
Poi ci sono i sistemi di “early warning”, allo studio da una decina di anni. Si basano sul fatto che alcune onde prodotte da un terremoto raggiungono i sismografi prima delle onde distruttive. «Questo ci dà alcuni secondi di preavviso, fino a dieci, rispetto alla scossa violenta» spiega Aldo Zollo, sismologo dell’università di Napoli Federico II, responsabile di un sistema sperimentale di early warning allestito sulla faglia che causò il terremoto dell’Irpinia nel 1980. «Cosa si può fare in dieci secondi? Bloccare le reti del gas e dei trasporti, mettere in sicurezza ambienti di lavoro pericolosi o sale operatorie, avvisare la popolazione con sirene o sms» spiega il ricercatore. La rete di sismografi del nostro paese è sufficientemente ricca. «Ma andrebbe adeguata la velocità di trasmissione dei dati» precisa Zollo.
Articolo intero su La Repubblica del 26/08/2016.
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