Nel 2014 il Pd ne aveva celebrato la cancellazione, ma esistono ancora come organi riservati a sindaci e consiglieri comunali. E i Consigli vengono rinnovati in mezza Italia.
Il trucco c’è, e si vede. Perché al di là di tweet e celebrazioni da #cambiaverso, le Province vivono e lottano (si fa per dire) insieme a noi. Anche quando si chiamano “città metropolitane”, sigla diversa che sotto la sua pomposità cela sempre loro: i vecchi enti locali. Così coriacei che votano per riprodursi anche in agosto, con urne riservate a sindaci e consiglieri comunali, proprio come avverrebbe per il Senato sfigurato dalla riforma renzianissima. Quella che le Province giura di ucciderle per davvero, togliendone menzione dalla Carta. Una promessa di oggi, che fa già a cazzotti con quelle di ieri. Un paio di anni fa l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio (ora ministro dei Trasporti), festeggiava: “Le Province sono state abolite nella loro classe politica, da adesso sono solo agenzie al servizio dei Comuni”. Lo giurava il Delrio “padre” dell’omonima legge, la 56 del 7 aprile 2014. Una svolta epocale che doveva svuotare di poteri e funzioni enti costosi e pletorici, giurava il Pd. Con risparmi, assicuravano, per un miliardo all’anno.
Ma le nuove norme non hanno cancellato le province. Le hanno soltanto trasformate in organi di secondo livello, con un presidente e un consiglio provinciale (da 10 a 16 membri) eletti dai sindaci e consiglieri comunali dei rispettivi territori, in liste proporzionali composte solo di eletti nei Comuni, a cui non spettano indennità. Cosa buona e giusta. Però dopo l’euforia arriva sempre la realtà. Innanzitutto quella dei numeri dell’Unione province italiane che, come ricordava il Giornale ieri, parlano di un risparmio effettivo di 110 milioni: 32 dalle indennità degli amministratori tagliati e 78 milioni dalle minori spese per il funzionamento della macchina burocratica. E un anno fa Sergio Rizzo sul Corriere della Sera faceva notare come le Province presunte abolite assumessero e spendessero che è un piacere. E poi c’è la realtà delle urne.
Nel mese in cui gli italiani affollano spiagge e montagne sindaci e consiglieri si sono ritrovati nelle sedi di varie Province per votare (anzi votarsi). E così il 3 agosto è stato scelto il nuovo Consiglio di Ravenna. Mentre il 9 agosto è stato votato quello della neonata Città metropolitana di Reggio Calabria, una delle 13 a livello nazionale. Già, perché alle dieci della legge Delrio a maggio si sono aggiunte le siciliane Palermo, Messina e Catania. Ma le differenze con le Province 2.0 sono limitate. Per le Città metropolitane, inventate per i grandi centri come Roma e Milano, è previsto un sindaco metropolitano, che coincide con quello del capoluogo. Ed esiste anche una conferenza metropolitana, composta dal sindaco e dai primi cittadini dei Comuni del territorio provinciale.
Poi, certo, c’è il Consiglio, che rimane in carica due anni, mentre il presidente dura quattro anni. Vengono eletti ovunque con il metodo proporzionale, dai partiti che ogni volta si sfiancano in accordi incrociati per formare le liste (fa eccezione il M5s, che però partecipa alle elezioni). E vengono scelti sempre con il voto ponderato: il voto degli eletti dei Comuni più popolosi ha maggior peso rispetto a quello delle frazioni.
La conseguenza è una selva di quozienti da geni dell’algebra: a Reggio Calabria le preferenze espresse dai consiglieri del capoluogo valevano il 9,945 per cento, a fronte dello 0,882 per cento per il voto degli eletti nei Comuni con popolazione fino a 10mila abitanti. E così a scendere, fino allo 0,217 per cento per sindaci e consiglieri dei centri sotto i 3 mila residenti. La sostanza è che da qui ai prossimi giorni si voterà per il rinnovo di diversi Consigli provinciali. Si riparte il 28 agosto a Macerata e Pavia, per poi passare a Mantova (30 agosto), Campobasso (31 agosto), Vercelli (primo settembre) e Treviso (18 settembre).
Il piatto forte però, quello delle Città metropolitane, arriverà ad ottobre. E precisamente domenica 9, quando si voterà per rinnovare i Consigli di Roma e Torino, appena prese dai Cinque Stelle. Nel capoluogo piemontese, oltre alla sede della Provincia, hanno previsto anche dieci seggi decentrati per i 3800 eletti chiamati al voto. A Roma invece si voterà solo nella sede della Provincia, a Palazzo Valentini. Ma nessuno attende la scadenza con particolare entusiasmo. Un consigliere veterano di centrodestra dice: “Per i partiti, tutti, la città metropolitana rappresenta più che altro un fastidio. Che va comunque presidiato”.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 25/08/2016.
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