NELLA vertenza sul “diritto al panino” in corso nelle scuole torinesi, ma che presumibilmente si allargherà a macchia d’olio in tutta Italia, si rischia di perdere non solo di vista, ma di fatto, alcune conquiste preziose in termini di solidarietà sociale e investimento nella crescita dei più piccoli. Trovo sorprendente che Miur, presidi, sovrintendenza scolastica, nell’opporsi a chi vuole mangiare a scuola il cibo portato da casa abbiano avanzato ogni sorta di impedimenti più o meno capziosi — dalla necessità di avere un luogo separato per evitare contaminazioni al costo dell’acquisto di micro-onde per riscaldare i pasti — senza mai accennare, per quanto mi risulta, alle questioni sostanziali. Questioni, per altro, ignorate anche dal divieto sinora vigente fatto a chi si porta il cibo da casa di rimanere a scuola con i compagni, divieto che ha, appunto, scatenato i ricorsi al giudice.
L’istituzione della mensa scolastica, infatti, ha storicamente perseguito almeno due obiettivi: garantire a tutti i bambini, indipendentemente dalle risorse della loro famiglia, almeno un pasto di elevato valore nutritivo e bilanciato al giorno e fare del momento del pasto un momento di educazione sia alimentare sia comportamentale. Per questo motivo, la presenza in mensa fa parte dell’orario di lavoro degli insegnanti ed i bambini, almeno fino a tutte le elementari, non sono lasciati a se stessi mentre sono a mensa.
Paradossalmente, questa funzione educativa della mensa è stata riconosciuta anche dalla sentenza dei giudici della Corte d’appello di Torino del 22 giugno scorso, che ha dato ragione ai genitori che chiedono di lasciare a scuola i figli con il pasto portato da casa, senza obbligarli a tornare a casa per mangiare. Secondo la Corte, tuttavia, è “il tempo della mensa”, il tempo dedicato al pasto, non il fatto di imparare, insieme ai propri compagni, a mangiare cose diverse ed eventualmente confrontare e rispettare esigenze dietetiche o di cultura alimentare differenti, ad essere parte della formazione dei ragazzi. Il che mi pare francamente riduttivo. Se si tratta solo di condividere tempo e spazi, basta un refettorio e un po’ di forni micro-onde, come mi è capitato di recente di vedere in una scuola elementare (privata) di Santiago del Cile, dove sedevano allo stesso tavolo bambini e insegnanti che avevano acquistato il cibo della mensa, altri che si erano portati qualche cosa di freddo da casa ed altri ancora che si erano scaldati il pranzo nel micro-onde. Tutto molto libero, senza che nessun adulto si preoccupasse di vedere se tutti avevano qualche cosa da mangiare, se quel qualche cosa era adeguato, se venivano rispettate le norme minime di igiene ed educazione, con la sorveglianza ridotta ad evitare eventuali zuffe. Nulla di male, tantomeno di scandaloso. Ma, appunto, nulla che riflettesse gli obiettivi che hanno avuto ed hanno le mense scolastiche in Italia. Non è sicuro che, se si allarga il fronte del rifiuto al cibo della mensa, anche se non al tempo-mensa (essenziale se il lavoro dei genitori non consente di essere a casa in tempo per accogliere un bambino, nutrirlo e poi eventualmente rimandarlo a scuola), questi obiettivi verranno mantenuti.
La sorveglianza dei genitori sulla qualità delle mense si allenterà, perché se qualcosa non va ci si potrà sempre chiamare fuori. L’istituzione scolastica stessa e il comune responsabile del servizio potrebbero incoraggiare questa soluzione, meno conflittuale e defatigante delle negoziazioni sui menu. Di conseguenza, con la diminuzone del numero degli utenti, aumenterà il costo unitario della mensa, sia per il comune sia per chi continuerà a fruirne, ulteriormente scoraggiandone offerta e domanda.
Gli insegnanti si ridurranno nel migliore dei casi a sorveglianti, nel peggiore se ne laveranno le mani. Molti dei bambini che più avrebbero bisogno di avere almeno un pasto proteico al giorno e di essere educati ad una alimentazione equilibrata saranno lasciati alle risorse materiali e culturali dei loro genitori. Vale la pena di segnalare che, secondo i dati dell’Indagine Europea sulle condizioni economiche della popolazione (Eu-Silc), in Italia c’è un 5,6% di minorenni che non consuma neppure un pasto proteico adeguato al giorno. Questo può non importare a coloro, tra i difensori della “libertà di panino”, che lamentano di essere costretti a pagare un costo relativamente alto per la mensa dei figli per sussidiare i più poveri, ma agli altri?
Artico intero su La Repubblica del 01/09/2016
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