Nessun governo ha imposto gli interventi anti-sisma.
Imorti del terremoto impongono un’assunzione netta di responsabilità. Da parte di tutti. Succede ogni volta che la terra trema. La tavola s’imbandisce di buoni propositi. Sarà l’ultimo, è il refrain. Che poi, alla luce dei fatti, sarà sempre il penultimo. Eppure, al netto di quello che forse saranno le responsabilità penali, fin da subito un responsabile esiste ed è la politica italiana, che in decenni di scosse e cadaveri non è stata in grado di chiudere il cerchio attorno a una norma che renda obbligatorio (quantomeno per gli edifici pubblici) l’adeguamento antisismico.
Sul sito della Protezione civile si legge addirittura: “Dal 1908, anno del devastante terremoto di Messina e Reggio Calabria, fino al 1974, in Italia i Comuni sono stati classificati come sismici solo dopo essere stati fortemente danneggiati dai terremoti. In alcuni casi, si è assistito a una declassificazione su richiesta paradossalmente degli stessi territori colpiti, come nel caso di 39 Comuni dell’Irpinia, con la legge n. 1684 del 1962, solo un mese dopo la loro classificazione avvenuta in seguito al terremoto del 21 agosto 1962”.
L’obbligo non esiste, c’è poco da girarci attorno. Anche davanti alle tragedie. Il caso più eclatante risale al 1998 quando, dopo il terribile terremoto dell’Umbria (1997) l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano emanò un’ordinanza che imponeva semplicemente “un aumento della sicurezza strutturale”. Nulla di più. Così si fece. Fino al 2002, quando a San Giuliano di Puglia la terra tremò di nuovo.
Era il 31 ottobre, 27 bambini morirono per il crollo del tetto della scuola Francesco Jovine. Pochi mesi dopo, nel 2003, una nuova ordinanza impose la riclassificazione dell’intero territorio. Fin da allora si capì che non c’è area italiana immune. Di più: quel documento impose, per la prima volta, un’analisi di vulnerabilità degli edifici pubblici (scuole comprese).
L’ordinanza fu emanata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Premier, allora, era Silvio Berlusconi. A capo della Protezione civile, invece, Guido Bertolaso. Nonostante tutto, però, di obblighi nemmeno l’ombra. Una prima prova di questa mancanza viene spiegata da Armando Zambrano presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri. “L’ordinanza spiega che dopo lo studio di vulnerabilità, accertata l’esistenza di un rischio, la palla per disporre l’adeguamento passa ai singoli enti locali che devono attingere le risorse economiche dalle loro amministrazioni”. Insomma, un’assoluta discrezionalità. Che resta ancora oggi. Quell’ordinanza, poi, sarà calata in un decreto ministeriale del febbraio 2008.
A firmarlo l’allora ministro alla Infrastrutture Antonio Di Pietro e il capo del Viminale Giuliano Amato. Siamo nel secondo governo di Romano Prodi. “Il problema dell’obbligatorietà dell’adeguamento – ricorda oggi Antonio Di Pietro – fu posto certamente. Anzi il nostro punto di partenza era proprio quello”. Poi ecco la politica. “Quel decreto ministeriale fu il massimo che riuscimmo a portare a casa dopo lunghe discussioni con la colazioni di allora”.
Attenzione, però, non fu una battaglia d’interessi di partito. Di Pietro la mette così: “Allora come anche oggi il vero problema è far quadrare i conti”. All’epoca a capo del ministero dell’Economia c’era il “tecnico” Tommaso Padoa Schioppa. Questioni di fondi, dunque. Adeguare costa. Sì, ma non solo. “Alla base – prosegue Di Pietro – c’è anche uno sbaglio nelle nostre scelte politiche, i soldi che s’impiegano in alcune grandi opere inutili devono essere prima di tutto utilizzati per mettere in sicurezza gli edifici pubblici italiani”.
Quel decreto ministeriale è stato l’ultimo. Il 24 giugno 2009 fu pubblicata la legge numero 77 centrata sull’emergenza del terremoto a L’Aquila. “Oggi – spiega il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri – è in discussione l’aggiornamento di quel decreto.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 01/09/2016.
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