Nei terremoti perdono la vita in media 130 persone all’anno, negli incidenti stradali 3.500. Lo Stato e i privati devono decidere dove concentrare i loro sforzi. E nessuna scelta è priva di conseguenze.
Come nel passato in circostanze analoghe, nei giorni successivi al tragico sisma che ha colpito l’Italia centrale abbiamo, da un lato, visto lo Stato salire sul banco degli imputati per la mancata attività di prevenzione e, dall’altro, vedersi addossato o, ancor prima, autoinvestirsi del compito della messa in sicurezza e della ricostruzione. Una lettura della realtà e una proposta di azione che non appaiono convincenti.
Partiamo dalla responsabilità per quanto accaduto. Siamo di fronte ad un evento imprevedibile? No. Sebbene non sia possibile definirne con precisione né la gravità né l’orizzonte temporale, è risaputo che vi sono alcune zone del nostro Paese ad elevato rischio sismico. Ed è una consapevolezza non acquisita di recente, ma che risale ormai ad alcuni decenni addietro.
Come ha raccontato ad Avvenire, Fabrizio Galadini, responsabile della sede de L’Aquila dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, sette anni fa, dopo il terremoto, fu chiamato a spiegare ai cittadini e alle amministrazioni locali cosa stava succedendo e parlò della possibilità “di un terremoto della massima intensità nella zona”. Di fronte a tale conoscenza non tutti si sono comportati allo stesso modo. C’è chi ha agito con prudenza, altri, probabilmente la maggioranza, no.
Ricorda Galadini: “Io vivo in un paesino della Marsica, una frazione di Magliano dei Marsi, dove se ci fosse una scossa non resterebbe nulla in piedi, meno casa mia che era un rudere che ho però consolidato.” Molti, pure avendone la possibilità, hanno scelto di non adottare misure che avrebbero reso più sicure le proprie abitazioni. Provvedimenti non alla portata di tutti ma sostenibili per la maggior parte delle famiglie e delle imprese.
Il professor Paolo Riva, vicepresidente della società di Ingegneria Sismica Italiana, ha sostenuto sul Fatto che vi sono “interventi di adeguamento antisismico abbastanza economici che consentono di ottenere significativi miglioramenti in caso di sisma, soprattutto in edifici di pietra analoghi a quelli crollati ad Amatrice e negli altri centri colpiti dal terremoto del 24 agosto. Le opere di incatenamento, per esempio, hanno un costo di circa 100 euro al metro quadro e incidono sulla vulnerabilità dell’edificio in modo significativo” consentendo a una casa di rispettare le norme antisismiche vigenti nelle zone dove massimo è il rischio sismico. Un’abitazione di 100 metri quadri potrebbe (avrebbe potuto) essere resa più sicura con una spesa una tantum di 10mila euro: 500 euro all’anno per venti anni, per la maggior parte delle famiglie una frazione modesta del budget annuale. L’adeguamento sismico completo richiederebbe cifre più consistenti, da 300 a 800 euro per metro quadro.
Al contrario di quanto si potrebbe ritenere, però, non è affatto certo che questa enorme spesa, soprattutto se avesse una forte componente pubblica, sia la strada ottimale da seguire per salvare il massimo numero di vite umane.
È stato stimato che, a livello nazionale, il costo complessivo per la messa in sicurezza totale degli edifici privati ammonterebbe a poco meno di 94 miliardi di euro. A fronte di tale spesa, il beneficio più significativo sarebbe costituito da una forte riduzione – ma non l’azzeramento – del numero di vittime in caso di sima. Ora, negli ultimi cinquant’anni in Italia a causa di eventi sismici hanno perso la vita in media ogni anno 130 persone (25 nell’ultimo quarto di secolo).
È il modo migliore di utilizzare quelle risorse per salvare delle vite umane? La risposta è: quasi sicuramente no. Pensiamo, per esempio, che ogni anno perdono la vita in incidenti stradali oltre 3.500 persone (erano il doppio venti anni fa). Se destinata al miglioramento della sicurezza stradale, lo stesso risultato in termini di riduzione della mortalità, potrebbe essere conseguito con una frazione dei soldi necessari a un’integrale adeguamento del patrimonio abitativo. Ma l’esempio della sicurezza stradale è uno tra i tanti: gli incidenti domestici generano più di 5.000 morti all’anno, anche nel settore della prevenzione sanitaria ci sono probabilmente azioni che salverebbero molte più vite umane per euro pubblico speso.
La seconda questione è relativa all’equità di tale provvedimento. È probabilmente giusto aiutare a finanziare la sicurezza di categorie sociali molto deboli o a cui manchi ogni possibile informazione sui rischi, ma per le altre categorie una assicurazione obbligatoria sembra invece del tutto sensata, come sarebbe sensato oggi compensare diversamente chi ha costruito coscientemente in zone sismiche risparmiando sulla sicurezza, dai residenti a basso reddito in edifici storici. Per questi motivi, anche nel caso di eventi sismici, l’intervento del soggetto pubblico dovrebbe essere ispirato a principi massima cautela ed efficacia (cioè il numero di vite umane salvabili) e orientato dal criterio di sussidiarietà anche al fine di minimizzare le occasioni di corruzione che, come noto, sono all’ordine del giorno in tali circostanze.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 05/09/2016.
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