Nelle tendopoli: “Ci offrono soldi per andar via”. Chiedono: “Subito le casette”.
Non ci faremo deportare. Dobbiamo restare qui, tra le nostre pietre e le nostre macerie. Se si disperde la nostra comunità è la fine per Amatrice”. Tendopoli del paese simbolo dell’ultimo terremoto italiano. Fa già freddo. E farà ancora più freddo nelle prossime settimane. Qui l’inverno arriva prima e si fa annunciare da piogge fitte e gelide.
Sotto il tendone centrale che a pranzo fa da mensa per i terremotati e nel pomeriggio si trasforma in luogo di incontro e di discussioni amare sul futuro, Dino Partenza ha riunito alcuni suoi amici. Ha le idee chiarissime: “L’inverno nelle tende sarà duro, sarà eroico resistere, ma dobbiamo farlo. Se accetteremo di andare negli alberghi della costa, oppure di sistemarci altrove da parenti e amici, Amatrice si disgregherà”. “Invece – aggiunge Marco Palombini – dobbiamo resistere qui per controllare da vicino la seconda fase dell’emergenza e soprattutto i piani di ricostruzione”. Marco è un giovane ingegnere, ha studiato a L’Aquila e vissuto tutta la fase di quel dopo-terremoto. “La ricostruzione post-sismica – è la sua analisi – può essere più devastante del terremoto stesso, diciamo, la scossa più grande e distruttiva. Una comunità può rinascere, correggendo gli errori del passato, oppure mutare definitivamente e in peggio”.
Parole dettate dall’esperienza vissuta nel capoluogo abruzzese che ammutoliscono gli altri presenti alla discussione. Uno allarga le braccia: “Il terremoto porta con sé mille insidie. La peggiore di tutte sono i soldi. Alcuni lo vivono come un Far West, una sorta di territorio da conquistare per speculazioni di ogni tipo”. Dino Partenza guarda all’oggi. “Siamo una piccola comunità, bisogna fare rapidamente il censimento degli sfollati nel paese e nelle sue 69 frazioni e approntare subito il villaggio per le casette prefabbricate. Nelle campagne, invece, bisogna assicurare alloggi sicuri agli agricoltori e ricoveri per le bestie. La nostra economia cammina su due gambe: agricoltura e turismo. Cibi sani e bellezza del territorio. Un patrimonio da tutelare”.
No agli alberghi sulla costa, no a sistemazioni alloggiative fuori dal paese: questa, per il momento, è la volontà della gente di Amatrice. Una signora indignata: “Ci stanno spingendo ad andar via, offrono 200 euro al mese a persona per chi si sistema altrove, ci parlano di confortevoli alberghi e non capiscono che noi abbiamo l’esigenza vitale di rimanere qui”. Ancora Dino Partenza: “Non nascondiamoci la realtà, il morale è a terra. Chi ha bambini o anziani in famiglia ha difficoltà a resistere sotto una tenda. È difficile stringere i denti quando si è deboli”.
Casette, container, alloggi prefabbricati. A differenza delle tragedie passate, L’Aquila compresa, la Protezione civile non dovrebbe essere impreparata. Come abbiamo scritto ieri, ora c’è un elenco di imprese vincitrici di una gara d’appalto e pronte, almeno teoricamente, a scendere in campo. Non ci sono appalti da fare sull’onda dell’emergenza. Eppure, girando per Amatrice non abbiamo trovato traccia di lavori per costruire piazzole e urbanizzazioni in vista della costruzione di un villaggio.
Intanto, sotto il capannone mensa della Protezione civile si riuniscono i commercianti, chiedono container per continuare la loro attività. La parola d’ordine è: restiamo uniti. “Vedi – mi dice il giovane ingegnere Marco Palombini –, la gente ha le idee chiare, questa volta vuole essere parte attiva nei processi decisionali, sa che una ricostruzione sbagliata può portare alla fine di Amatrice e di questi luoghi. Invece qui, viste anche la dimensione limitata del terremoto e dei paesi da ricostruire, si possono sperimentare modelli nuovi di ricostruzione che tengano insieme la sicurezza e il rispetto delle architetture passate”.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 07/09/2016.
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