SE TUTTO è così facilmente rappresentabile, se tutto è così “naturalmente” pubblico, come si fa a spiegare ai ragazzi che mettono in rete atti sessuali (altrui) più o meno carpiti che è un gesto violento e pericoloso? Che può portare una persona a sentirsi morire, magari a morire davvero? Loro sono avvezzi a postare TUTTO. Come se nessuna esperienza potesse darsi se non ha la sua vidimazione social. Come se la vita fosse invissuta se non è impaginata nei miliardi di quadratini portatili che ognuno di noi porta in tasca. Credo che questo sia il vero problema, la progressiva erosione del margine di indicibilità, di preziosa solitudine, di silenzio e di segreto che chiamiamo genericamente “privacy” ma è molto di più, è la Verità non riproducibile, non replicabile che ognuno di noi ha nel cuore e nel corpo.
È come se, non afferrandone più il valore e il peso, non riconoscendola più come tale, quella Verità potesse essere presa a calci come un barattolo, e che sarà mai, la mia compagna di scuola senza mutande, il mio compare di discoteca strafatto, non è forse tutto lo stesso infinito spettacolo, lo stesso romanzo collettivo del quale tutti siamo autori, basta uno smartphone carico? Ma raccontare è difficile. Il racconto è menzogna e artificio perfino quando ti fai un selfie; e essere autore di qualcosa — di qualunque cosa — è una responsabilità. Ogni post, anche se sono miliardi, ha un autore, e ogni autore è il suo responsabile. L’irresponsabilità è solo l’orribile equivoco, e l’orribile alibi, che si annida nei numeri smisurati del web.
Da La Repubblica del 15/09/2016.
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