SE IL clamore e le discussioni attorno al “caso Ferrante” hanno sconfinato, e di molto, dall’ambito letterario, è perché la questione toccata è nevralgica. E non riguarda solamente gli scrittori famosi o altri famosi assortiti, ma ognuno di noi contemporanei, immersi nella società di massa. La questione, all’osso, è se la presenza pubblica sia obbligatoria o facoltativa. Se ancora esista — come sostengo, come spero — un diritto all’assenza, oppure questo diritto sia inconciliabile (mi viene da dire: eticamente inconciliabile) con il dovere di apparire, di essere raggiungibili, di essere a disposizione. Sì, un dovere. Rivendicato dai tanti che hanno considerato doveroso — appunto — il disvelamento dell’identità di Ferrante, perché “il pubblico deve sapere”.
Che voglia o non voglia, quella persona, comparire in pubblico, è evidentemente considerato un dettaglio.
Del resto su altra scala (meno “qualificata”, ma ben più vasta e invasiva) c’è anche chi ritiene sintomo di asocialità — di puzza sotto il naso, si dice al bar — non avere una pagina Facebook o un account Twitter. L’impressione — parlo per esperienza personale — è che il diritto all’assenza sia, in quel caso, nemmeno percepito: viene accolto come una stravaganza “di nicchia”, per giunta oltraggiosa nei confronti dei miliardi di presenti. Difficile far capire che si sta parlando di identità. Di un “io sono mio” che, in tempi di massificazione, è il più precario, il più crivellato degli stendardi.
Da La Repubblica del 06/10/2016.
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