STRANA giornata, dolorosa e poetica, quella che si porta via il teatrante Dario Fo, il Nobel per la letteratura più eccentrico di sempre, e lo assegna al cantante Bob Dylan, almeno altrettanto eccentrico.
Poco da spartire tra il vecchio giullare italiano e il quasi vecchio cantastorie americano (con una battuta potremmo dire che l’opera del primo è evangelica e francescana; biblica e puritana quella del secondo), se non la coincidenza, formidabile quanto casuale, che porta i due Nobel più “pop” di tutti i tempi, alla stessa ora dello stesso giorno, a incrociarsi sulle prime pagine e a contendersi i titoli a rullo delle breaking news, uno in partenza e l’altro in arrivo.
La sola conclusione sensata che se ne può trarre, a giudicare dallo strabordante impatto mediatico, è che l’arte della parola, a dispetto di ogni crisi, di ogni slittamento del senso comune, di ogni mutazione tecnologica, dispone ancora di una potenza infinita. Chi ci parla – se è capace di parlarci bene – diventa una parte di noi. Quando muore, ci dispiace per lui e per noi, perché ci sentiamo più soli. Quando vince un premio importante siamo contenti per lui e per noi, ci sentiamo partecipi del successo perché le sue parole le conosciamo bene: sono anche le nostre, non poche mandate a memoria da anni.
Come accadde per Fo, anche per Dylan c’è chi non apprezza, dice che la letteratura è un campo specifico, teatro e canzone sono altro, e Philip Roth (il più grande tra i viventi?) il Nobel ancora lo sta aspettando, non si sa con quanta apprensione, magari zero. Ma esiste un corpus di parole scritte e pensate, a monte del teatro di Fo così come delle ballate di Dylan, veramente imponente, anche letterariamente imponente, magari più di quello di qualche esile bravissimo appartato poeta ugualmente chiamato a Stoccolma con uno smoking in valigia e un discorso da pronunciare di fronte al Re.
Senza le parole Fo e Dylan non esisterebbero (non esisterebbe il teatro, non esisterebbe la canzone), le parole che hanno scritto riga dopo riga, fogli di appunti e quaderni, dalle biro e matite delle origini al computer che ne ha presumibilmente preso il posto, magari con dita più giovani che digitano sotto dettatura. Non è scrittura? Forse se si chiamasse “Nobel per la scrittura” sarebbe più facile mettere tutti d’accordo.
Il nostro Nobel, in ogni modo, anche prima di esserlo e anche se non lo fosse mai stato, era un signore incredibilmente dotato per la mimica e per l’affabulazione, doti che molto di rado riescono a convivere nello stesso attore. Trasformava la parola in rumore e in gesto: la parola come suono del corpo, addirittura la parola come parte del corpo. Il libro era lui. Aveva una leggerezza di mosse, di camminata, di eloquio, che faceva sembrare il teatro (che è una fatica bestiale) una cosa forte ma senza sforzi, uguale alla natura, una ventata, un tuono, uno scroscio. Una risata.
Alle tante cose più importanti e congrue che potrete leggere e sentire su di lui e sul suo teatro, in questi giorni, mi viene da aggiungerne una terribilmente minore, forse futile, che però dico lo stesso perché credo, dicendola, di dire qualcosa di Dario Fo, di come era Dario Fo. Nello specifico di come era il suo corpo, ovvero lo strumento del quale fu un grande virtuoso. Nel grande piazzale davanti alla Fiera del Libro, al Lingotto di Torino, Fo camminava con un bel cappello chiaro in testa, forse un borsalino. Era già molto vecchio (Fo; il borsalino non sembrava). Un improvviso colpo di vento gli rubò il cappello. Con un breve velocissimo scatto, incredibile per un ottuagenario, lo rincorse e lo acchiappò con una mano, chinandosi quasi a terra per la cattura, le lunghissime gambe prima aperte nello slancio della corsa, poi flesse per avvicinare la mano a terra.
Articolo intero su La Repubblica del 14/10/2016.
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