Già a luglio l’intervento pubblico era inevitabile ma il premier non ha voluto perdere consensi. E ha preso tempo.
Per chi diceva che i mercati non avrebbero battuto ciglio…”. È il vicesegretario del Pd Debora Serracchiani a cedere per prima alla tentazione: scaricare su chi ha votato No al referendum la responsabilità della crisi fase finale di Mps, quella che porterà a una forma di nazionalizzazione. L’amministratore delegato Marco Morelli ha poi fatto la sua parte per individuare un altro capro espiatorio, la Banca centrale europea: subito dopo il voto ha scritto alla vigilanza bancaria di Francoforte chiedendo 20 giorni in più per trovare le risorse necessarie all’aumento di capitale da 5 miliardi.
Le cerca da più di un mese, senza risultato, ma diceva che era colpa del referendum imminente. A che servono 20 giorni aggiuntivi? A crearsi un alibi: i provvedimenti straordinari verranno attribuiti al diniego della Bce, di cui la Reuters ha dato notizia ieri (pur in assenza di comunicati ufficiali), invece che al fallimento della strategia concordata tra governo, Mps e il partner Jp Morgan.
Ora che il bluff della cosiddetta “strategia di mercato” è diventato evidente, siamo tornati indietro di cinque mesi. All’inizio della campagna referendaria, quando il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno deciso di mettere a rischio la tenuta del sistema bancario italiano pur di non affrontare la perdita di consensi che avrebbe comportato affrontare il caso Mps.
Per attribuire correttamente le responsabilità di quello che sta succedendo bisogna tornare al decreto salvabanche del 22 novembre 2015, è in quel momento che i mercati sperimentano le prime conseguenze del dilettantismo finanziario del governo Renzi e della Banca d’Italia. Palazzo Chigi, fidandosi dei calcoli di Via Nazionale, azzera azioni e obbligazioni subordinate di quattro piccole banche fissando un valore molto basso per i crediti in sofferenza (quelli a rischio rimborso) nei bilanci, 17,6 euro per ogni 100 prestati. I mercati applicano lo standard al resto del sistema bancario e ne deriva una voragine virtuale di quasi 50 miliardi.
Per mascherare le proprie responsabilità, governo e Banca d’Italia iniziano un tentativo – fallito – di contestare il quadro normativo europeo, appena recepito senza obiezioni dal Parlamento italiano e dalla stessa Bankitalia. La Commissione europea che pure è stata tanto flessibile in materia dei conti pubblici, sa che con le banche non si scherza. Una eccezione per l’Italia minerebbe la credibilità del nuovo approccio deciso dopo il 2012: quando ci sono crisi bancarie, lo Stato interviene solo alla fine, prima devono pagare azionisti, creditori e, se serve, anche i correntisti.
A luglio la situazione precipita: la Bce scrive al Monte dei Paschi di Siena di ridurre di 10 miliardi le proprie sofferenze entro il 2018. Serve quindi un aumento di capitale da 5 miliardi di euro. Sembra difficile immaginare che ci sia la corsa degli investitori a mettere altri soldi in una banca che ha già bruciato 8 miliardi in due anni. Un intervento dello Stato pare inevitabile: già a fine giugno il Tesoro inizia a studiare l’impatto di emissioni aggiuntive di debito per 40 miliardi, necessarie a finanziare l’intervento. Anche il percorso è chiaro a tutti: l’articolo 32 della direttiva Brrd sulle crisi bancarie che regola gli interventi precauzionali, come quello su Mps, che è una banca in cerca di risorse ma, per quanto fragile, non insolvente. Lo Stato può intervenire senza far scattare il bail in, cioè il salvataggio a spese di azionisti e creditori che deve coinvolgere almeno l’8 per cento delle attività dell’istituto prima di consentire che una parte del conto arrivi allo Stato. Nei casi previsti dall’articolo 32 basta il burden sharing, cioè scaricare un po’ del peso sui creditori più esposti, quelli delle obbligazioni subordinate. C’è un sostanziale accordo con Bruxelles, anche la Bce è d’accordo.
È in quel momento che Matteo Renzi, con la tacita approvazione del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, decide di anteporre le proprie esigenze a quelle del Paese. Ferma tutto. Niente decreto, niente intervento, niente burden sharing, niente perdita di voti in vista del referendum. Il premier viene rassicurato da Jamie Dimon, l’amministratore delegato di Jp Morgan che a un pranzo gli promette il miracolo, una “soluzione di mercato”: un complesso meccanismo che coinvolge il fondo Atlante e che dovrebbe ripulire la banca evitando di far perdere consensi all’esecutivo e con commissioni per Jpm Morgan fino a 1,7 miliardi in cinque anni.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 10/12/2016
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