Il segretario si dimette e avvia il congresso lampo: “Non potete chiedermi di non candidarmi. I ricatti sono peggio delle separazioni”.
A sera, dopo l’Assemblea del Pd che ha quasi consumato la scissione, concludendosi però con l’ennesimo rinvio (alla Direzione di martedì, dove andrà costituita la Commissione per fare le regole del congresso), neanche Matteo Renzi sa bene quale sarà il quadro che si troverà davanti nelle prossime settimane. L’addio di Pier Luigi Bersani e soci sembra ormai davvero solo una formalità. Se è così, Renzi farà il congresso, ma non si sa contro chi. Forse contro Andrea Orlando. Un confronto che rischia di non essere abbastanza forte.
Tanto che la data segnata sul calendario per le primarie torna ad essere il 9 aprile. Per gestire da segretario rilegittimato le Comunali e evitare brutte sorprese sui territori. Magari per puntare di nuovo verso le elezioni a breve: con la scissione, le variabili sulla tenuta della legislatura si moltiplicano.
Questo è il film di domani. Intanto, la giornata dell’ennesima resa dei conti nel Pd scorre via confusa e nervosa. L’Hotel Parco de’ Principi è affollatissimo: quasi 700 delegati, più invitati e giornalisti. Renzi entra per ultimo, con la divisa da guerra, la camicia bianca. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, arriva scortato dai baresi, Francesco Boccia e Dario Ginefra. Per dire che è alla ricerca di un modo di evitare l’addio la butta in battuta: “Sono disperato”.
È lui la variabile che può cambiare il verso della giornata. In platea – ad aspettare Renzi per puntellarlo nel nome del Pd – ci sono gli ex segretari e padri nobili, Piero Fassino, ma soprattutto Walter Veltroni. In un angolo, pronti ad andarsene, Pier Luigi Bersani col resto della minoranza. Massimo D’Alema “controlla” lo stato delle cose da fuori e se ne va a vedere la Roma.
Renzi ha già deciso. E il suo discorso non lascia spazio a mediazioni. “La scissione ha le sue ragioni che la ragione non conosce” (parafrasa Pascal). E attacca: “Non potete chiedermi di non ricandidarmi. Peggio delle scissioni ci sono i ricatti”. Ancora: “Adesso basta: si discuta oggi ma ci si rimetta in cammino”. Percorso congressuale aperto: da Statuto va fatto entro 4 mesi. Renzi è tanto deciso, quanto arrabbiato. Torna sul referendum: “In questa fase in molti mi dicono di No”, dice con una battuta che capisce solo lui. Ammette le sue colpe, ma sembra quasi avercela col destino: “C’è un prima e un dopo 4 dicembre. È stata una botta per la politica italiana. Siamo tornati alla prima Repubblica senza la qualità della classe dirigente della Prima repubblica. Si stanno scindendo tutti”.
Affermazione che apre esplicitamente il campo a un sistema proporzionale, con tanti piccoli partiti, e alle larghe intese. “Io non accetto che ci sia un copyright della parola sinistra”, dice agli scissionisti. E poi: “Il potere nel Pd appartiene ai cittadini che vanno a votare alle primarie, non ai caminetti e alle correnti”. Cita pure Arturo Parisi, il padre dell’Ulivo. Appello/frecciatina finali: “A chi per tre anni ha pensato che si stava meglio quando si stava peggio dico mettetevi in gioco”. Chiusura su Joseph Conrad, Linea d’ombra: “Accogliendo il bene e il male, le rose e le spine, si va avanti. Allegri e frementi”. La contro relazione la fa Guglielmo Epifani. Parla per i tre candidati di minoranza, Emiliano, Speranza e Rossi: “Bisogna fermarsi. Se fossi stato io il segretario avrei convocato i tre candidati e avrei cercato di capire. Il segretario mi pare invece abbia deciso di tirare dritto: è un errore”. Gli ultras renziani in platea rumoreggiano. Matteo Orfini dalla presidenza li invita a non fare tifo da stadio. Situazione che si ripeterà più e più volte durante la giornata. “Si apre una riflessione che porterà a una scelta”, conclude Epifani. Per la maggioranza, vuol dire che la scissione non sarà in giornata.
Sul palco sale Piero Fassino. “Ne ho fatti tanti di congressi, non sono i tempi di un congresso a determinare la qualità del congresso. Ai compagni della minoranza dico che il Pd è la casa di tutti”. E poi è la volta di Veltroni. Da anni non prendeva la parola in una situazione del genere: “Era e sarà giusto così”, chiarisce. Ma “oggi è mio dovere dire quanto mi sembri sbagliato e ingiusto ciò che sta accadendo: mi appello a tutti coloro con cui abbiamo condiviso la strada affinché la loro strada non si separi dalla nostra”. Accuse retrospettive implicite a D’Alema: “Se il primo governo Prodi avesse proseguito, la storia italiana avrebbe avuto un altro corso”.
Tocca a Franceschini fare la minaccia finale a chi sta uscendo: “Siamo vicini alle urne ed è difficile in un tempo così corto avere una scissione e poi andare insieme alle elezioni”. Orlando rilancia la Conferenza programmatica. Tocca a Emiliano. Sembra che i giochi si riaprano. L’ex segretario non concede nulla, neanche la replica che Bersani gli aveva chiesto.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 20/02/2017.
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