In un suo racconto Dino Buzzati immagina l’inferno come una enorme sala d’aspetto in cui i defunti attendono una decisione sul loro destino, senza sapere se e quando arriverà. Approssimata per difetto, è la situazione della giustizia italiana. In queste ore tiene banco il caso di Roberto Saviano e Rosaria Capacchione. Quando l’avvocato del clan dei Casalesi li minacciò nel bel mezzo di un processo, anche un pessimista avrebbe scommesso sulla rapida conclusione della vicenda. Il reato era stato commesso sotto gli occhi di tutti, addirittura in un’aula di tribunale, non richiedeva indagini o interrogatori particolari. E invece la macchina dell’imbroglio si è messa inesorabilmente in moto.
Chili e chili di carte bollate per arrivare, dopo dieci anni e una prima sentenza di condanna, alla scoperta che il processo aveva sbagliato indirizzo: era rimasto a dormire a Napoli, mentre avrebbe dovuto prendere il treno per Roma. Dove adesso ricomincerà daccapo, girando intorno a se stesso come un criceto sulla ruota, finché la prescrizione vi apporrà il timbro dell’oblio.
Se una storia di ordinaria in-giustizia riesce ancora (forse) a bucare la crosta della rassegnazione è per la popolarità delle vittime e la pericolosità del beneficiario: la camorra. Ma la sensazione di impotenza che tormenta Saviano e Capacchione è condivisa dai troppi italiani a cui è toccato frequentare questo teatro dell’assurdo, dove gli iniziati agli arcani della Legge accatastano parole su parole, smarrendosi in un labirinto di forme che paralizza la vita degli onesti e spesso finisce per migliorare solo quella dei furbi.
Da il corriere.it
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