Puigdemont dice che la Catalogna ora ha il diritto di diventare uno Stato ma vuole dialogare con Madrid. Insoddisfatti i duri della sua coalizione.
BARCELLONA – In uno scenario blindato, il parco dove si trova il Parlamento catalano era stato chiuso dai Mossos e dalla polizia fin dalle prime ore del mattino, con migliaia di persone in piazza in attesa, centinaia di reti tv e giornalisti da tutto il mondo, Carles Puigdemont ha cercato di contenere, da un lato e dall’altro, l’escalation di tensione di questi giorni. «Assumo l’impegno di costruire la Catalogna come un nuovo Stato, repubblicano e indipendente», ha detto, perché questo è il risultato del referendum del 1° ottobre. «Un giorno – ha aggiunto – nel corso del quale centinaia di migliaia di catalani hanno votato sotto una pioggia di manganellate».
Ma chiedo al Parlamento di sospendere questa mia dichiarazione di indipendenza per favorire l’avvio di un dialogo sul nostro futuro. La svolta è tutta qui:
nella richiesta di sospensione che dovrà essere votata dai deputati. Ovviamente il governo catalano ha perso l’appoggio della Cup, la formazione che si autodefinisce “anticapitalista” e che ha dieci seggi in Parlamento. I voti della Cup erano quelli che garantivano l’esistenza del governo di coalizione. Ora una possibilità da non escludere nei prossimi giorni è che si vada a nuove elezioni regionali in tempi brevi. «Tradimento inammissibile », è la prima reazione della Cup e di una parte delle migliaia di indipendentisti convocati «per difendere la Repubblica». Ma l’effetto che cercava Puigdemont era disattivare le due mosse che Madrid aveva già pronte se avesse ufficialmente dichiarato in modo unilaterale l’indipendenza. Il suo arresto e la sospensione dell’autonomia catalana. Misure molto drastiche che adesso, con la “sospensione”, sono più difficili da prendere vista l’ambiguita della dichiarazione di indipendenza. Una furbata – si potrebbe dire – quella di Puigdemont che lascia aperti tutti gli scenari e che rinvia lo scontro finale con il governo dei Popolari di Mariano Rajoy.
Puigdemont ha parlato poco più di mezz’ora, centrando la gran parte del discorso sulla storia politica degli ultimi anni. Dall’affondamento del nuovo Statuto, negoziato con Zapatero e approvato in un referendum dalla Catalogna, voluto dal governo dei Popolari fino alla repressione delle ultime settimane. «Mentre noi abbiamo sempre cercato il dialogo – ha detto -, da Madrid hanno risposto con violenza e con il disprezzo delle nostre ragioni. Mobilitando contro di noi la magistratura e le forze dell’ordine». Ma poi, dialogante: «Tutti dobbiamo assumere la nostra responsabilità per raffreddare le tensioni. Non contribuirò con le parole né con i gesti ad aumentarla». Prima della conclusione non è mancato un attacco a Felipe VI. Puigdemont ha detto di aver sperato in un ruolo moderatore e mediatore della Casa Reale aggiungendo che è rimasto molto deluso, assieme a milioni di catalani, dalle parole del re. Terminando con: «Le urne hanno detto ‘si’ all’indipendenza e questo è il cammino che sono disposto a percorrere». La scelta molto tattica di una dichiarazione così ambigua è maturata negli ultimi giorni, dopo la manifestazione unionista a Barcellona, gli appelli di Ada Colau, e la fuga di banche e aziende che hanno trasferito le loro sedi legali nel resto della Spagna. Una frenata che, spera Puigdemont, possa evitare, lasciando comunque aperta la porta a uno strappo definitivo, reazioni radicali da Madrid.
Articolo intero su La Repubblica del 11/10/2017.
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