SE L’ITALIA si fosse qualificata, Carlo Tavecchio sarebbe ancora al suo posto. Sarebbe la stessa persona, con le stesse idee, la stessa mentalità, lo stesso modo di esprimersi. Ma gli sarebbe bastato un gol — come agli azzurri — per rimanere a galla.
L’incidentalità delle sue dimissioni rischia di farne il classico capro espiatorio, ovvero di assolvere, grazie alla sua cacciata, il famoso “movimento” che lo ha eletto capo, a immagine e somiglianza dei dirigenti e dei presidenti del calcio italiano.
Non tutti, ovviamente, ma molti, ugualmente sbrigativi di modi e di pensiero anche quando facoltosi e potenti. Dai “ricchi scemi” degli anni Cinquanta e Sessanta, ruspanti ma con l’attenuante delle umili origini, al basso rango di alto censo dei giorni nostri, non si sono fatti molti passi in avanti: se la classe dirigente è questa, non c’è post- Tavecchio che tenga. I grandi elettori di Tavecchio fecero fuori, strada facendo, Demetrio Albertini, Gianni Rivera e Damiano Tommasi, pur di non avere tra i piedi qualcuno che ragionasse con la sua testa. Ora dovrebbero tenerselo, Tavecchio: perché sono loro che lo hanno voluto contro l’evidenza, anche contro l’opinione di Renzi che stava a Palazzo Chigi. Per la serie: non sempre la colpa è della politica.
Da La Repubblica del 21/11/2017.
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