Quando Di Maio, faccia da genero di tutte le mamme, ha presentato l’ammiraglio Rinaldo Veri come «il meglio dell’Italia», ogni anima sensibile ha provato un brivido di emozione. E quando «il meglio dell’Italia» ha illustrato le originalissime ragioni della sua candidatura (il futuro dei nostri figli), il brivido è aumentato, anche per merito di un mancato congiuntivo esploso tra le sue labbra per dovere di ospitalità. Ma i brividi sono diventati fremiti all’ora di pranzo, quando il Nelson dei Cinquestelle è stato costretto a ritirare la candidatura, dopo la scoperta che faceva il consigliere comunale a Ortona in una lista di centrosinistra collegata al Pd.
Gli strali dei malevoli si sono indirizzati sul povero Di Maio, colpevole di mancato controllo. A me affascina di più la psiche dell’ammiraglio. Un uomo tanto impegnato a pensare al futuro dei nostri figli può non conoscere il regolamento del partito con cui si candida, ma dovrebbe almeno accorgersi che non è lo stesso di cui fa parte. Se uno sta con Renzi a Ortona e con Di Maio a Roma, chi ci garantisce che non sia leghista a Busto, dalemiano a Gallipoli e sudtirolese nella Bolzano di Maria Elena Boschen? In Italia abbiamo elevato il cambio di casacca a un’arte, però mai finora un virtuoso del ramo era riuscito a indossare la nuova senza togliersi prima quella vecchia. Qui dove tutti sono maestri nel fiutare il vento per restare a galla, «il meglio dell’Italia» non poteva che essere un ammiraglio.
Da il corriere.it
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