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Posts Tagged ‘Adriano Sofri’

DHUBATIIl lavoro delle Ong contro l’orrore delle nozze infantili.

DHUBATI – C’È UN VILLAGGIO, Dhubati, nel reticolo formato dal Gange e il Brahmaputra e da una miriade di altri fiumi. Tutto è fatto come un giardino di acqua e argini di creta e mattoni. Per arrivarci, dalla capitale Dhaka, c’è una mezz’ora di aereo a Jessore (120 km, in treno sono dieci ore), poi due ore e mezza di auto a Khulna, un’altra ora d’auto poi un’ora e mezza di battello a Kailashkanj Ghat, poi un tratto in motocicletta. Il villaggio è radunato attorno a una vasca recintata da bambù, per la prova di nuoto dei suoi piccoli, dai quattro ai dieci anni. Ogni esercizio è accolto da un grande applauso. Galleggiamento, nuoto, apnea, e finalmente la messinscena essenziale: una bambina simula — drammaticamente bene — di affogare, e un bambino grida all’allarme e interviene, porgendole una pertica cui afferrarsi. Poi, a riva, c’è anche la prova di rianimazione.

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C’È un gran discutere sulla disparità e l’iniquità del modo in cui reagiamo. Tutti per Parigi, nessuno per Beirut, dove il giorno prima due kamikaze dell’Is hanno ucciso 41 persone e ferite 200.

DICIAMO: «Sono Parigi» e non diciamo mai «Sono Peshawar» o «Sono Mogadiscio». È utile che ne discutiamo, senza fare confusione. La reazione alla violenza, la stessa solidarietà con le vittime, sono una cosa, il lutto è un’altra cosa. Il lutto ci riguarda personalmente, e distingue fra le perdite. Fra le ossa che ogni giorno in terra e in mare semina morte. Il lutto è di una persona, di una famiglia, di una comunità. Più spesso è prossimo nel senso della vicinanza, ma può unirci anche a una gran distanza. Quando siamo colpiti dal lutto, diciamo: «È come se avessi perduto una parte di me».

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PARLIAMO ora della paura che hanno, non di quella che fanno. Non per qualche siringa rinvenuta: un doping sta nel conto anche dei professionisti di stragi. A Parigi, forse, qualcuno di loro ha avuto paura, ha cercato di prendere tempo coi suoi quando già sguazzava nel sangue del Bataclan, si è fatto (o è stato fatto) esplodere fuori dallo stadio.

SENZA nemmeno procurarsi una vittima. Tempo fa, un video dell’Is mostrava un suo ragazzo alla partenza con l’autobomba, che d’improvviso si metteva a lacrimare per nostalgia della vita. Poi i suoi caporali lo carezzavano e ammonivano, e andava a esplodere. Ma c’è altro che gli episodi personali. Vediamo.
Tutto è cominciato con la loro onnipotenza. Ne siamo stati sbigottiti e annichiliti. Quella, cui non eravamo pronti, era l’onnipotenza della ferocia. Le decapitazioni al coltello eseguite alla telecamera senza battere ciglio. Occorre tempo, addestramento, esercizio, per fare dei combattenti. Avevamo preferito non accorgerci di quanto tempo, esercizio e addestramento avessero investito per fare dei tagliagola.

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I luoghi.

I ragazzi del teatro come gli eroi della République. La solennità della Sorbona e il giardino del museo di Cluny. Viaggio nella città colpita a morte. Attraverso i simboli che accecano i jihadisti.

MARTEDÌ, ieri, finisce il terzo e ultimo giorno di lutto. È giorno di chiusura dei musei. Pioviggina. C’è un crollo del turismo. Alla République i ragazzi provano a escogitare qualche dettaglio, nuovi disegni di candeline, e tutto rifinisce nella Marsigliese.Ha riaperto il traffico davanti al Bataclan. Fu già in passato un bersaglio, per la proprietà ebraica e la libertà delle iniziative. E con un concerto come quello, “Eagles of Death Metal”, che nel momento dell’attacco stava eseguendo “Kiss the Devil”, una specie di ritrovo satanico. Macché, la band non richiama il Death Metal se non ironicamente, e ha in repertorio titoli come “Peace and Love”…

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PARIGI – SUL MONUMENTO della République c’è un foglio su cui qualcuno ha scritto “BOOKS NOT BOMBS”, “Libri non bombe”, e benché l’idea vada da sé, sono due giorni che ci penso su. Penso a tre variazioni. 1: Libri non bombe. 2: Bombe non libri. 3: Libri e bombe (o il suo risvolto, Né libri né bombe, che accantoniamo). E siccome sono a Parigi, e a Parigi vale la pena anche solo per le sue librerie, vado dai librai.
Del resto, non avevo scelta: interpellare fabbricanti e commercianti di bombe è troppo complicato. È il secondo di tre giorni di lutto, e molte librerie sono chiuse. A Rue de l’Odéon “Le coupe papier” ha messo sulla sua vetrina antiquaria una pagina scritta a mano, con una grafia ammirevole (traduzione mia): «La libreria resterà chiusa oggi.

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Il racconto.

Tra il via vai di comuni cittadini l’omaggio delle diverse fedi. Le parole più usate: “Amour” e “Love”. Per battere l’ultimo nemico: il panico.

PARIGI – L’IMAM E IL rabbino si sono chinati insieme davanti al Bataclan. È stato importante, ed è importante che gli imam convenuti abbiano cantato la Marsigliese, che uno degli imam convenuti abbia spiegato: «Sono francese musulmano, e penso di essere più toccato di altri», e abbia aggiunto che «la gran parte degli imam francesi è pacifica»: la gran parte non sono tutti. Credo che ci sia un equivoco di fondo nella distinzione che continuiamo a formulare fra musulmani fanatici e moderati. E non perché i musulmani si somiglino tutti, che è un oltraggio all’intelligenza e all’evidenza. Il totalitarismo islamista, pur diviso in bande mutuamente accanite, si mobilita e organizza fino a costituirsi in esercito e stato multinazionale, come nel sedicente califfato, e offre la sua bandiera al rancore e alla frustrazione di una vasta parte del pianeta.

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La storia.

“Charlie” era una trincea. Qui è la gente comune a essere colpita. Ecco perché “Je suis parisien” è più vero che mai.

MonumentiQUANDO si piange e ci si torce le mani e ci si vergogna della propria impotenza, è il momento di fare qualcosa. Qualcosa, qualsiasi cosa, non pretende nemmeno di misurarsi con la violenza cui si assiste. Vale un po’ per gli altri, per le vittime, per quelli che sono feriti, per quelli che scappano e sono spaventati, e un po’ per sé. Mai come in questa circostanza è vero che “avremmo potuto trovarci al loro posto”. La redazione di Charlie era ancora una trincea, seppure involontaria, il mercato kosher era un bersaglio dell’infamia antisemita: qui è la strada, il ristorante, il concerto, lo stadio, la Parigi dei parigini e di tutti, le nostre scolaresche, i nostri parenti. Ci fanno guerra, si dice, mentre commemoriamo la Grande Guerra, il soldato con l’elmetto che tiene alta la bandiera e sorregge il compagno esanime in ogni piazza di paese.

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Iraq.

Con l’aiuto di militari Usa i curdi aprono un nuovo fronte: con loro i sopravvissuti al massacro di un anno fa.

HANNO cominciato gli aerei americani e della coalizione alle 9 di sera di mercoledì, bombardando decine di postazioni dell’Is, che a Shingal e Tal Afar dispone degli armamenti pesanti più efficienti, per averli sottratti un anno e mezzo fa all’esercito iracheno in fuga. Alle 7 della mattina 7.500 peshmerga curdo-iracheni, combattenti curdosiriani del Ypg e curdoturchi del Pkk, e yazidi, un’armata di 20 mila, muovono l’attacco di terra. Devono misurarsi, oltre che col fuoco di artiglieria e di cecchini, con una sequela di autobombe suicide e una semina di mine e congegni esplosivi artigianali. Riguadagnano un villaggio dopo l’altro — macerie. Alle 10 e mezza sono entrati in città. Si combatte davvero casa per casa.

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la capitaleLa “capitale” del Kurdistan turco nelle ultime settimane di campagna elettorale è tornata a essere una città in guerra Il coprifuoco è stato dichiarato tre volte dalle elezioni di giugno quando l’Hdp filocurdo ha impedito a Erdogan di ottenere la maggioranza in Parlamento.

DIYARBAKIR — Amed in curdo — è 1400 chilometri a Sudest di Istanbul, ha almeno un milione di abitanti, è la capitale del Kurdistan turco. Ma siccome il Kurdistan turco non esiste, nemmeno moralmente o poeticamente, anzi è proibito, Diyarbakir non è la capitale di niente. In compenso in luglio l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità la sua città vecchia, circondata da 6 chilometri di mura romane e bizantine, e i giardini Hevsel, sul Tigri, che sono in realtà lussureggianti frutteti, pioppeti e campi a ortaggi. La gente di Diyarbakir ballò per le strade.

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Dopo averli dispersi ai quattro venti, Iraq, Iran, Turchia e Siria, oltre che in una diaspora antica, la storia si è divertita a rimettere i curdi al centro della scena: una scena di guerra e terrore. La strage di ieri, per il numero di vittime, il luogo – la stazione- e il contesto elettorale, è famigliare agli italiani che ricordano che cosa volesse dire Strategia della tensione. La guerra civile tra l’esercito turco e il partito comunista e indipendentista curdo, il Pkk di Abdullah Ocalan, ha fatto dal 1984 quarantamila morti. Dopo una tregua nel 2013, e una serie di falsi movimenti negoziali, nel luglio scorso è tornata a divampare.

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attentato
Era già successo, ma c’è sempre un gradino più infame: cinque bambine mandate insieme a esplodere all’entrata di una moschea all’ora della preghiera della sera. La loro età può essere solo ricostruita a occhio dai testimoni superstiti: la più piccola, dicono, avrà avuto nove anni. Sarà stato più facile per loro andare insieme, le più grandi che facevano coraggio alle più piccole – o viceversa, chissà. I morti (dicono le notizie, ma il conto è destinato a crescere) sono 14, «comprese le bambine». Non so se chi ha redatto così la notizia l’abbia fatto distrattamente, o si sia fermato a riflettere. Altre volte si leggono frasi diverse: «Ci sono state 9 vittime, oltre agli attentatori». Si sta attenti a mettere in un conto a parte gli attentatori, specialmente quando siano avidi della propria morte. Qui nessuno può essere tentato di togliere le bambine dal conto delle vittime. Ci si interroga angosciosamente: si rendono conto, le attentatrici suicide, di ciò cui vanno incontro?

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Il califfatoLa storia

Bashar Matti Warda chiede all’Italia di aiutare i cristiani dell’Iraq: “Il nostro è un vero e proprio genocidio. Non aspettate 20 anni per riconoscerlo”.

DOPO la decisione della signora Merkel e del suo governo di accogliere in qualità di rifugiati, in deroga a Dublino, i fuggiaschi dalla Siria, il governo italiano non dovrebbe fare lo stesso per i cristiani dell’Iraq che scampano alla persecuzione del Califfato?
Non sono ubriaco, dunque non immagino di accoglierli per una ragione settaria, discriminando altre confessioni o l’assenza di fede, che è una delle condizioni più dignitose di esistenza umana. Il fatto è che in quella regione i cristiani abitano da tempo immemorabile e sono al tempo stesso una comunità religiosa e un popolo.

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Alan

Il reportage.

Il viso riaffiora dal lenzuolo, il padre vuole dare un ultimo bacio Nessun combattente attorno alla fossa, per quella famiglia che aveva cercato la fuga.

Sepolto con mamma e fratello a Kobane il corpo di Alan,divenuto un simbolo.

ERBIL – AKobane i volontari hanno appena finito di scavare le fosse, restano appoggiati alle pale sui mucchi di terra sassosa, fra poco bisognerà ricolmarle. C’è una folla, non numerosa, soprattutto di uomini. Le donne non partecipano alla sepoltura nei funerali musulmani tradizionali, qui ce ne sono alcune, giovani per lo più, anche alcune bambine in lacrime, benché non si debba. Le salme sono tolte dalle bare servite al trasporto, andranno nella terra avvolte nel lenzuolo bianco. Il viso di Alan (le autorità turche avevano dato in un primo tempo il nome Aylan, poi la zia ha corretto, ndr ) riaffiora un’ultima volta, sciolto dal lenzuolo, perché suo padre vuole baciarlo. Poi il lenzuolo si riannoda come un nastro sulla sua testa. Le fosse sono larghe e profonde abbastanza perché il padre e lo zio e gli uomini che li aiutano ci scendano dentro a deporre i corpi. Corpi leggeri.

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I minori

Le immagini.

Da Bodrum e Budapest, da Ceuta e dal Canale di Sicilia ci arrivano le storie di vita e di morte dei piccoli migranti. Vittime innocenti, che non capiscono l’assurdità delle cose dei grandi.

HO appena visto un uomo adulto, qui a Erbil, guardare il bambino Aylan e scoppiare in pianto. Scorro la home page di Repubblica .it .
C’è la foto del soldato turco col bambino in braccio, meno terribile, ammesso che sia meno terribile una Deposizione, una Pietà maschile. Nella foto in cui è accanto al fratellino maggiore Galip e alla loro orsacchiotta, Aylan è davvero piccolo e, come si pretende dai bambini, felice: ha gli occhi chiusi perché ride. Sulla spiaggia sembra che dorma, ha detto qualcuno: sembra piuttosto che abbia voltato la testa alla terra, a tutto.

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Da una parte l’offensiva dello Stato islamico, dall’altra l’ostilità storica della Turchia. In mezzo la sofferenza di un popolo che lotta da secoli per i propri diritti calpestati E che, anche al suo interno, si consuma in un acceso conflitto fra clan Tra povertà, sogni e corruzione del potere.

ERBIL (KURDISTAN IRACHENO) – IN UNA barzelletta, lo sfollato arabo scrive al parente lontano che a Shaqlawa si sta bene, «però ci sono parecchi curdi». Il fatto è che Shaqlawa è una cittadina di montagna curda di 25mila abitanti, diventata ora di 50mila per l’arrivo degli arabi sunniti scappati al Califfato nero, soprattutto da Falluja. La battuta potrebbe estendersi all’intero Kurdistan iracheno (Krg). Shaqlawa è rinomata per le antichità assire, il paesaggio e il clima temperato d’estate: che quest’anno, quando a Erbil si toccano i 46 gradi, vuol dire una serata ad appena 35.

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Un bellissimo sabato d’estate al mare, pieno di barche. Il numero cresce di ora in ora: mentre scrivo sono 23, fra barconi e gommoni, e circa 3 mila esseri umani, ad aver chiesto aiuto, e una dozzina i bastimenti, fra navi della Guardia Costiera e della Marina italiana e norvegese, motovedette, imbarcazioni della Guardia di Finanza e di associazioni di buona volontà, e qualche volonteroso mezzo di diporto, ad aver risposto. Questo sulla rotta per le nostre coste. Appena più in là, si è guadagnata il primato la rotta fra Turchia e Grecia, favorita dalla vicinanza delle isole, dove sono i siriani i più numerosi. Fra gli sbarcati, le baruffe e a volte le risse di Kos si sono trasferite negli scontri al confine con la polizia macedone.

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SI PUÒ ancora dire qualcosa che non sia stato già detto a proposito dei migranti? Ci provo, partendo da una coincidenza radiofonica. La mattina del 12 agosto Radio 3 ha trasmesso, a mezz’ora di distanza, due servizi senza legame fra loro. Il primo, per il programma “Tutta la città ne parla” .

ERA DEDICATO a un nuovo dramma della migrazione: l’approdo di migliaia di fuggiaschi all’isola greca di Kos. Il secondo, per il programma “Radio 3 scienza”, era dedicato all’isola di Ventotene, tappa importante delle migrazioni di uccelli, e perciò dell’inanellamento da parte degli ornitologi volontari. Sono stato a sentirlo perché ho anch’io una passione per l’osservazione degli uccelli, ma dopo poche frasi mi sono accorto che il racconto si adattava tal quale ai migranti umani. Riassumo (ma potete andare a riascoltarlo: “La promessa del ritorno”).

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centinaiaLe foto.

Le autorità, ma anche i comuni cittadini hanno una preziosa distanza da quel Mediterraneo, mezzo pieno o mezzo vuoto, dove gli esseri umani continuano a morire.

LA prima fotografia è presa da più lontano: il mare blu appena increspato e tanti puntini neri o colorati sparpagliati, forse uccelli marini, forse esseri umani.
Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c’è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un’ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa.

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CONTINUAVA a girarmi per la testa: la bambina Europa. È il titolo di un romanzo autobiografia di Vittorio Sermonti, uscito nel 1954. Ma non c’entrava. Era per via di Angela Merkel, dell’Europa, della bambina palestinese Reem, e della Grecia. Sono scontento degli opposti commenti all’atteggiamento della signora Merkel con la ragazzina in lacrime. L’hanno deplorata per la sua ( tedesca, hanno detto i peggiori) brutalità. L’hanno lodata per la sua (tedesca, hanno detto i peggiori) franchezza. Ho riguardato il video: Reem è di una bella limpidezza, quando dice da brava le cose per cui è stata invitata all’incontro con la cancelliera, e poi quando, mutata d’improvviso nella destinataria di una lezione sulla Germania e il mondo in fuga, scoppia in lacrime. E la cancelliera? Interdetta, ha cercato di rimediare, e l’ha fatto così goffamente da dare l’impressione di mancare di compassione.

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La giornata della memoria

Srebrenica.La cerimonia per i 20 anni del genocidio rovinata dalle proteste contro il leader serbo accolto da fischi e striscioni. Il premier era ministro di Milosevic e qui nessuno lo ha mai perdonato. Prima degli incidenti erano stati seppelliti 136 corpi appena ricomposti.

SREBRENICA – NEL MOMENTO in cui la cosa sta succedendo, pensi: ecco, questa è una tragedia. Nel giorno più sbagliato, nel posto più sbagliato. I discorsi ufficiali sono finiti, al riparo dalla gran moltitudine, dall’altro lato della strada. Precedendo altri ospiti, il primo ministro della Serbia, Aleksandar Vucic, viene incautamente fatto passare in un lungo sentiero che dall’ingresso del grande camposanto sale fino alla tribuna allestita per le autorità, dalla quale assisteranno alla tumulazione dei 136 corpi appena ricomposti. La folla lo riconosce, lo subissa di fischi e di insulti, e subito dopo, dai bordi del percorso protetto dalle guardie del corpo, l’aggressione: lancio di bottiglie, sassi, scarpe, colluttazioni furibonde. Continua così fino alla sommità della pendice sulla quale è disteso il cimitero, quando Vucic viene fatto scomparire nella macchia, mentre i suoi tutori sbrigano gli ultimi corpo a corpo. Intanto i fischi e gli urli scompagnati della folla si sono raccolti nel grido corale di “Allah’o akbar”.

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