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Posts Tagged ‘Gian Carlo Caselli’

È sfrenata la ridda di contraffazioni e imitazioni di prodotti italiani agroalimentari che si scatena nel mondo. In questi giorni Coldiretti ha allestito nel suo padiglione all’Expo una “mostra degli orrori”. Vedere per credere. Il gorgonzola piace, e diventa “timboozola” in Australia e “cambozola” in Germania. Nel Wisconsin fabbricano il provolone, in Argentina la “provoleta”. Il parmigiano diventa “parmesan” in Usa, “parmesao” in Brasile,“regianito”in Messico e assume altre svariate declinazioni nei paesi dell’Europa orientale.In Canada troviamo salame calabrese e prosciutto San Daniele, in Germania la “Firenza salami”, in Messico un “Parma salami”, in Danimarca un salame “Toscana”, in Usa la “Finocchiono Milano’s Suino d’Oro”.Mailmassimodellafantasia non poteva che essereinBrasile,dovesifa unamortadella…siciliana! Imbattibile la creatività carioca…. (altro…)

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La Camera ha approvato, sulla responsabilità civile dei giudici, una leggina che consente di chiedere il risarcimento (oggi possibile solo verso lo Stato) direttamente contro il magistrato presunto colpevole. La “riforma” è prima di tutto ipocrita, in quanto contrabbandata come adeguamento alla normativa europea, che invece esclude la possibilità stessa di azione diretta contro il giudice. Essa poi si basa su formule (comportamento, violazione del diritto, diniego di giustizia…) che sono di una vaghezza spaventosa, da manuale del legislatore sprovveduto. Ma tanta ignoranza non è ipotizzabile, e la “riforma” risulta scritta benissimo se il suo obiettivo è stendere una rete capace di intrappolare tutto e tutti a prescindere da colpe effettive, trasformando molti magistrati in burocrati impauriti . (altro…)

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BerlusconiI DUE CODICI PENALI

I “galantuomini” e la legge tutta loro.

Valutate complessivamente, le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi, fino all’ultima che ha portato al suo affidamento al servizio sociale, consentono l’ipotesi che nel nostro sistema penale coesistano due distinti codici. Uno per i “galantuomini” (cioè le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale , perbene a prescindere…); l’altro per cittadini “comuni”. Nel primo caso il processo – con la sua interminabile durata – mira soprattutto a che il tempo si sostituisca al giudice, vuoi con la prescrizione che tutto cancella, vuoi – mal che vada – ammorbidendone gli esiti con indulti, condoni, scudi e leggi ad personam assortiti. Nel secondo caso invece, pur funzionando malamente, spesso il processo segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone. 

   BERLUSCONI certamente appartiene alla fascia dei “galantuomini” nel senso ora specificato: sia per come si è obiettivamente sviluppata gran parte delle sue vicende processuali; sia per le aprioristiche certezze di innocenza, anzi di “persecuzione”, che segnano le percezioni soggettive del diretto interessato e dei suoi fedeli. Di più: Berlusconi è un “supergalantuomo”, perché tende a piegare il “garantismo” a pratiche di difesa dal processo invece che nel processo. Un neogarantismo strumentale negazione del garantismo vero, secondo cui le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di privilegio. 

   Ma c’è un altro profilo del “supergalantuomismo” di Berlusconi: la pretesa di prolungare all’infinito un processo già di per sé interminabile, arrogandosi l’inedita funzione di… giudice di se stesso, anche dopo una condanna definitiva e irrevocabile. Ed eccolo sparare – da colpevole! – giudizi tanto pesanti quanto apodittici sulla sentenza, definita con spocchiosa disinvoltura mostruosa, ridicola, politica, inventata e golpe. Come se tre gradi di regolare giudizio non bastassero e ci fosse ancora spazio per inventarsene un quarto, rimesso però alle scelte discrezionali del… condannato. Comodo! Quasi che il conflitto di interessi tipico del “berlusconismo” fosse arrivato – con questa inconcepibile confusione di ruoli fra giudice e imputato – alle sue estreme conseguenze…

   Ma non è finita: la pretesa di Berlusconi di ergersi a giudice senza averne titolo sembra illimitata. Perché si indirizza addirittura al capo dello Stato. Leggiadramente accusato di non avere adempiuto il “dovere morale” di graziarlo, nonostante tutti sappiano che la grazia (sempreché ne ricorrano gli estremi) può essere concessa solo se l’interessato ne fa richiesta, cosa mai verificatasi nel caso di specie. Così come tutti sanno che il capo dello Stato è garante della Costituzione, della quale principio cardine è la legalità come uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Ed è per questo che egli è anche presidente del Csm, organo posto a presidio dell’indipendenza della magistratura come precondizione per aspirare – appunto – a una legge uguale per tutti. Per cui l’ accusa di Berlusconi al capo dello Stato si risolve in quella di aver fatto… che cosa? 

   Semplicemente il suo dovere, non prendendo in considerazione neppure l’ipotesi che un cittadino (per quanto “gentiluomo”) possa essere più uguale degli altri, fino al punto di ricevere una patente di sostanziale impunità mediante una grazia impossibile. 

   DA ULTIMO, non si può non ricordare un’altra anomala pretesa del clan berlusconiano: l’“agibilità politica” del leader, da assicurare nonostante la condanna. Come a dire esplicitamente che il trattamento del condannato (in Italia) dovrebbe essere differenziato in base al suo “status” sociale e politico. La consacrazione della compresenza di due distinti codici: non proprio il massimo in democrazia. E comunque una categoria estranea alla giurisdizione, per cui sarebbe ben strano se la pretesa “agibilità politica” avesse in qualche modo finito per influire sulla stessa decisione del Tribunale di sorveglianza.

Da Il Fatto Quotidiano del 01/05/2014.

 

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Cibo criminaleGli impoverimenti e i saccheggi che le mafie operano sulla pelle dei cittadini, vampirizzando la qualità della loro vita, sono infiniti. Le mafie non si negano niente: qualunque opportunità di conquistare territori e mercati (aumentando il proprio potere economico) va bene. Fra i tanti investimenti di denaro sporco in attività apparentemente pulite, di speciale pericolosità per gli interessi della collettività sono quelli del settore agroalimentare. Proprio il settore nel quale un tempo le mafie affondavano le proprie radici storiche e culturali, oggi è diventato area di investimento remunerativo, strategico ed emergente: con dimostrazione della straordinaria capacità di adattamento delle mafie (è nel loro DNA) al nuovo, in questo caso la globalizzazione dei mercati e dei traffici internazionali. (altro…)

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CarceriRitardare all’infinito la trattazione di gravi problemi significa farli marcire. Quando poi si interviene lo si fa con l’acqua alla gola. Aprendo spazi a chi voglia sfruttare la tecnica del “prendere o lasciare”, della chiamata alle armi come extrema ratio per salvare la casa che brucia: con lo scopo di far passare soluzioni che altrimenti sarebbero indigeribili. Una situazione che in questi giorni si può constatare sia sul versante della legge elettorale che della legge “svuota-carceri”.

PARLIAMO di quest’ultima e registriamone le obiettive radici di indifferibile urgenza, derivanti dalla necessità di impedire che scatti la mannaia della sentenza “Torreggiani” emessa nel gennaio 2013 dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), sospesa fino a maggio 2014 per dare tempo al nostro Stato di rimediare al sovraffollamento delle carceri. Se non si fa subito qualcosa, diverrà inesorabile una straziante gogna internazionale dell’Italia come “Stato torturatore”, oltre a dover pagare sanzioni pecuniarie imponenti per i quasi tremila ricorsi già presentati per detenzione disumana e degradante.  (altro…)

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AndreottiGIUSTIZIA.

Il problema della corruzione per il nostro Paese costituisce una priorità assoluta. Per varie ed evidenti ragioni. Primo. È una vergognosa tassa occulta, che secondo alcune stime arriva a 60 miliardi di euro l’anno, vale a dire mille euro per ciascun cittadino italiano, neonati compresi. Secondo. A causa dell’enormità della corruzione il futuro dell’Italia è gravemente compromesso. Ed è una rapina perpetrata sulla pelle dei giovani, a parte il fatto che gli stranieri prima di investire in un sistema così corrotto ci penseranno mille volte. Terzo. È un impoverimento delle risorse e incide pesantemente sulla qualità della vita di ciascuno di noi. (altro…)

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BaraldiNel suo videomessaggio del 17/9 Silvio Berlusconi si è definito “leader dei moderati”. Si può discutere se sia davvero da moderati parlare di “ultima chiamata prima della catastrofe” per concludere con inviti incalzanti a “fare qualcosa di forte”.

Nel suo videomessaggio del 17/9 Silvio Berlusconi si è definito “leader dei moderati”. Si può discutere se sia davvero da moderati parlare di “ultima chiamata prima della catastrofe” per concludere con inviti incalzanti a “fare qualcosa di forte”. E tutto per non riconoscere un paio di sentenze univocamente pronunciate in tribunale, appello e Cassazione: quindi consacrate da tre decisioni conformi in tutti i gradi previsti dal nostro ordinamento (la condanna penale per una grave evasione fiscale e la conclusione della vicenda giudiziaria relativa al “lodo Mondadori”).  (altro…)

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Il giornale

“PANORAMA” (E POI “IL GIORNALE”) PUBBLICANO LA LISTA DI PROSCRIZIONE DEI MAGISTRATI CHE HANNO INQUISITO BERLUSCONI: SONO “TOGHE ROSSE”.

Il settimanale Panorama (tosto rilanciato da Il Giornale con sincronico gioco di squadra) ha elencato, con foto di gusto segnaletico, 26 magistrati “toghe rosse” che negli ultimi 20 anni “hanno messo sotto accusa Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori”, facendo “uso politico della giustizia”. Quella delle “toghe rosse” – il Fatto Quotidiano se ne è già occupato – è una favola che non regge alla prova dei fatti. Ma le “liste di proscrizione” (in questi termini si sono espressi molti commentatori, a partire dalla Associazione nazionale magistrati) sono ben più di una favola. Perciò conviene parlarne.

INNANZITUTTO perché nel-l’elenco figura un magistrato, Gabriele Chelazzi, morto nel 2003 praticamente “sul pezzo”, mentre era impegnato allo spasimo in un’inchiesta di straordinaria incisività sullo stragismo mafioso del ’93. Tutti gli italiani per bene lo ricordano, senza retorica, come idealmente avvolto nel tricolore per i servizi resi al nostro Paese. Calpestare la sua memoria non è ammissibile.  (altro…)

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Caso RubyREALTÀ CAPOVOLTE.

L’obiettivo è la “scomparsa del reato commesso da Berlusconi e sanzionato da tre gradi di giudizio”. Per conseguirlo si sta praticando un “sovvertimento della realtà”, un “rovesciamento clamoroso del senso” (Ezio Mauro su Repubblica ). Muove nella stessa direzione anche la campagna di attacchi ossessivi contro Magistratura democratica. Nel senso che quando una decisione non piace – come nel caso del giorno – si prescinde totalmente dal punto essenziale se essa sia giusta o meno: si cerca invece di svalutarla nel merito tirando in ballo – a vanvera – le “toghe rosse”, accusandole di malefatte assortite che si possono sintetizzare nella colpa di esistere e di essere indipendenti.

In realtà, parlare del colore della toga è una furbata. Perché le vicende giudiziarie degli ultimi vent’anni sono lì a dimostrare che le contestazioni del Cavaliere riguardano l’intero ordine giudiziario, e perciò uno spettro assai ampio nel quale sfuma e diventa impercettibile l’eventuale diverso colore delle toghe (quale che sia, perché se vogliamo ci sono anche le toghe “azzurre”…). All’inizio della storia, è vero, a essere oggetto di attacchi apodittici erano solo alcuni procuratori. Ma poi, man mano che i processi si sviluppavano, sono finiti nel mirino anche i magistrati giudicanti tutte le volte che hanno deluso certe aspettative.  (altro…)

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AbdicazioneLARGHISSIME INTESE.

Ci risiamo. Se non è una stravagante coazione a ripetere, può essere una regola d’ingaggio. Il responsabile giustizia del Partito democratico deve esordire sciorinando il suo programma su Il Foglio.
Lo fece a suo tempo Andrea Orlando. Lo ha replicato il suo successore Danilo Leva. Ovviamente ciascuno sceglie la sede che gli piace: ma che direbbero i simpatizzanti dell’Inter se Mazzarri scegliesse un sito della Juve per annunziare i suoi programmi? Dialogare va bene, ma attenzione alle modalità del dialogo, altrimenti si possono alimentare nocive confusioni.
Soprattutto se si è nel bel mezzo di una furibonda campagna scatenata dalle forze berlusconiane tutte – piazza compresa – contro la magistratura (colpevole di voler giudicare il “capo” applicando la legge), con lo strampalato obiettivo di creare nuove regole processuali, a metà tra l’onirico e l’illusionistico, per trasformare non si sa come una condanna definitiva di Cassazione pronunziata in nome del sovrano popolo italiano, come le due di merito che l’hanno preceduta. E non basta parlare di “soliti buontemponi” (come fa Leva) per svalutare questi oggettivi profili di opportunità. Soprattutto se si offre all’articolista de Il Foglio il destro di scrivere che “sfogliando insieme con l’on. Leva l’agenda delle priorità del Pd sulla giustizia si scopre che su diversi punti il Pd potrebbe trovare delle convergenze col Pdl per offrire al paese, come si dice in questi casi, una giustizia più giusta”. (altro…)

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Per anni e anni Antonio Ingroia è stato considerato l’erede professionale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Di Borsellino era stato anche sostituto nella Procura di Marsala. Poi l’aveva seguito alla Procura di Palermo e se l’era visto uccidere da Cosa Nostra neanche due mesi dopo l’assassinio di Falcone.

Invece di scappare verso uffici più comodi, è rimasto a lavorare a Palermo in procura, divenendo titolare o contitolare di importantissime indagini antimafia che l’hanno esposto a rischi gravissimi: costringendolo a vivere perennemente circondato da militari, cani lupo, filo spinato e sacchetti di sabbia persino sul pianerottolo di casa. Grazie al suo sacrificio, al suo impegno e ai lusinghieri risultati ottenuti, Antonio Ingroia è anche diventato – per moltissimi italiani, non solo magistrati – unpunto di riferimento e un modello. Poi, di colpo, è finito nel punto d’incrocio della raffica di assalti furibondi scatenati ormai da anni contro la magistratura e in particolare contro l’antimafia che nella Procura di Palermo ha sempre avuto un suo epicentro.  (altro…)

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Pino Puglisi

Prete coraggio. Ieri la beatificazione.

Don Pino Puglisi muore (ce lo racconta il mafioso che lo uccise) sorridendo e pronunziando le parole “me lo aspettavo”. Cosa voleva dire, con quel sorriso e con quelle parole? Per il sorriso la risposta è facile, tant’è che don Pino è stato – ieri, a Palermo – beatificato come martire. La sua fede era profonda e sincera. Sapeva che la conclusione della vita terrena è solo un passaggio all’aldilà. Un passaggio per crescere: perciò sorrideva. Ma le parole “me lo aspettavo”? Forse don Pino si è ricordato delle tante volte che – in vita – si era guardato intorno e si era trovato solo. Non perché fosse qualche passo avanti rispetto alla posizione che gli spettava. Ma perché restavano indietro, spesso molto indietro, coloro che avrebbero dovuto essere accanto a lui. E la solitudine, si sa, sovraespone. Anche quando, come don Puglisi, non si è “anti” mafia o “anti” qualcos’altro.  (altro…)

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Per colpire la procura di Palermo di oggi che indaga sulla intricata materia comunemente rubricata alla voce “trattative” si mira anche alla procura di ieri. Così l’autorevole Eugenio Scalfari, che chiude il suo polemico articolo di domenica scorsa contrapponendo ai magistrati di oggi, “che invocano il favore popolare”, la riservatezza di Falcone e la sua cautela nella “gestione” del pentito Buscetta in tema di rapporti mafia- politica. Per quanto mi risulta la contrapposizione non è ben posta. I pentiti “storici” (non solo Buscetta, ma anche Marino Mannoia) sapevano molte cose. Già nel 1985 Buscetta aveva parlato di Andreotti al procuratore Usa Richard Martin, che lo ha poi testimoniato a Palermo sotto giuramento. Preferirono però non parlarne a Falcone, perché – queste in sostanza le parole di Buscetta – prenderebbero per pazzi lei Falcone e noi, in quanto lo stato italiano non è ancora pronto per affrontare questo livello che pure è cruciale per il potere mafioso. (altro…)

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La “guerra” contro Ingroia si fa sempre più pesante. Nuove “munizioni” sono venute dalla strumentalizzazione che i soliti ambienti hanno scatenato dopo la morte improvvisa di Loris D’Ambrosio. Un evento drammatico e triste, che per tutti dovrebbe essere ragione di sincero dolore. Qualcuno invece non esita ad approfittarne per accusare Ingroia – sen – za mezzi termini – addirittura di “omicidio”. Polemiche incivili e squallide, ma non nuove. Nell’agosto 1998 Ingroia (assieme al sottoscritto) interrogò a Cagliari il collega Luigi Lombardini, accusato di vari reati. Al termine dell’interrogatorio Lombardini si chiuse nel suo ufficio e si suicidò. Un fatto terribile e tragico, subito biecamente sfruttato dai nemici della Procura di Palermo per imbastire l’ennesima speculazione, questa volta sciacallesca. ALL’INDOMANI del suicidio fu intercettata una conversazione fra Paolo Liguori (allora direttore di Studio aperto) e l’imprenditore Nicola Grauso, coinvolto nell’inchiesta Lombardini. (altro…)

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Il nostro Paese è teatro di una guerra vera e propria. Non contro la crisi economica. O contro la disoccupazione. O contro l’evasione fiscale. O contro la corruzione. La vera guerra che si combatte è contro la Procura di Palermo. Un guerra totale, condotta con tattiche diverse, ma tutte ispirate all’obiettivo di restringerne gli spazi operativi e di circoscrivere il rischio che si scoprano verità sgradevoli. Bersaglio “privilegiato” di questa guerra è Antonio Ingroia. Già pupillo di Paolo Borsellino; da sempre costretto a vivere con i militari, i cani lupo e i sacchetti di sabbia intorno a casa sua, a causa di processi delicatissimi in cui è stato o è Pm (Contrada; Dell’Utri; “trattative ” tra Stato e mafia) Ingroia è finito proprio nel punto d’incrocio della raffica di assalti scatenata contro la Procura di Palermo e contro l’antimafia. Un luogo di intersezione che lo ha esposto moltissimo ad attacchi anche furibondi. Come l’assurda richiesta (in relazione al cosiddetto caso Ciancimino) di tirar fuori per lui l’art. 289 del codice penale – attentato a organi costituzionali – che punisce con 10 anni di galera chi cospira contro lo Stato. O come nel raggelante episodio di inciviltà che ha riguardato la sua persona in Senato, quando – mentre si citava il gravissimo fatto di un attentato distruttivo ordito contro di lui – una parte dell’aula ha fatto un coretto di irrisione alla pronunzia del suo nome. (altro…)

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Vent’anni fa le stragi di Capaci e via d’Amelio hanno radicalmente cambiato la mia vita. La ferocia spietata dei corleonesi e dei loro complici voleva cancellare libertà e diritti, aprendo sotto i piedi dell’Italia l’abisso spaventoso di uno Stato-mafia o narco-Stato. Mi sembrò doveroso mettermi a disposizione e chiedere di essere trasferito da Torino a Palermo, nella convinzione che proprio da Palermo doveva ripartire la strada che avrebbe consentito alla nostra democrazia di resistere. Cominciò così la mia esperienza di capo della Procura di quella città. Una fatica, nel ricordo di Falcone e Borsellino, condivisa per quasi sette anni con un’infinità di persone coraggiose.
UNA FATICA supportata all’inizio dalla concordia granitica sugli obiettivi antimafia che cementò l’intiero nostro Paese. Resa poi più gravosa dal progressivo allentamento di tale concordia, col riaffiorare di antiche posizioni (che già avevano intralciato il lavoro di Falcone e Borsellino) preoccupate di bloccare l’applicazione diffusa e intransigente delle regole anche nei confronti degli imputati “eccellenti” accusati di collusione con la mafia. Proprio l’eredità di Falcone e Borsellino imponeva di non arrendersi nonostante l’infoltirsi delle schiere degli oppositori dichiarati e dei finti neutrali. (altro…)

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Caro direttore, le ombre cupe che in vita si addensarono sulla testa di Giovanni Falcone, a causa dell’incisività della sua azione antimafia, sono storia. Spesso dimenticata ma storia. Ricordarla significa illuminare di luce vivida la straordinaria figura di un magistrato che per senso del dovere seppe perseverare con tenacia, nonostante fosse consapevole di rischiare la vita.
Ancora a metà degli anni Settanta c’era chi osava scrivere: «La mafia ha sempre rispettato la magistratura, si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine». E non erano parole di uno sprovveduto qualunque, ma di un alto magistrato della Cassazione, Giuseppe Guido Lo Schiavo. È evidente che «ragionando» così era sempre la mafia a vincere. (altro…)

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Esce oggi in libreria “Corretti e corrotti”, Gian Carlo Caselli dialoga con Marco Alloni (Aliberti). Ecco un estratto del libro.
Quando mi occupavo di terrorismo a Torino e indagavo sui delitti delle Brigate rosse e di Prima linea, ero accusato di essere un fascista. Mentre quando (avendo chiesto io – volontariamente – di andare a Palermo dopo la morte di Falcone e Borsellino) ho cominciato a indagare sulle connivenze fra mafia e politica, ecco che sono diventato un comunista! Insomma, vorrei un po’ capire anch’io come ho potuto cambiare a questo modo… senza accorgermene. Falcone e Borsellino. Anche a loro è toccato di vivere un’esperienza negativa, addirittura nel periodo d’oro del pool: quella appunto di essere etichettati in un certo modo e di veder così profondamente squalificato il proprio lavoro. (altro…)

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Dopo la dichiarazione di morte presunta del “concorso esterno” vigorosamente scandita dal pm Iacoviello nella sua requisitoria (si fa per dire…) nel processo Dell’Utri, molti erano ormai in trepida attesa dei funerali. Se-nonché, questa figura di reato non vuol saperne di tirare le cuoia. Essa infatti ha trovato nuova linfa proprio nella sentenza della Cassazione su Dell’Utri. Il succo della sentenza si trova alla pag. 129 delle complessive 146, là dove si legge che “in conclusione il giudice di merito (cioè la Corte d’appello di Palermo cui il processo è stato rinviato) dovrà esaminare e motivare se il concorso esterno sia oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico di Dell’Utri anche nel periodo – 1978/1982 – di assenza dell’imputato dall’area imprenditoriale Fininvest – e se il reato contestato sia configurabile, sotto il profilo soggettivo, anche dopo il 1982, posto che – quanto all’elemento materiale – risultano pagamenti Fininvest in favore della mafia protratti con cadenza semestrale o annuale fino a tutto il 1992 (pag. 128 della sentenza) ”. (altro…)

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In Italia la Camera, per “salvare” dall’arresto un suo componente, prende a sberle la magistratura farfugliando di “fumus persecutionis” e altre amenità pur di rendere meno indigeste strategie e alleanze che riducono la politica a mortificante baratto. Nello stesso tempo, a Londra, lord Phillips di Worth Matraves, presidente della Suprema Corte, ha stabilito che nella sua aula chiunque sarà libero di abbandonare gli antichi paramenti. Basta quindi con parrucche e forse anche con toghe e bavaglini di pizzo. La modernità contro una tradizione che risale al Seicento. Con la motivazione (così Andrea Malaguti su La Stampa) che “il processo va reso accessibile a chiunque”; – deve essere “un confronto tra uomini, non tra raffinati aristocratici scelti per rappresentare una plebaglia muta”.

Non portano parrucche i deputati italiani che a maggioranza hanno “salvato” l’onorevole Cosentino e prima ancora avevano disinvoltamente approvato, tra l’altro, leggi “ad personam” finalizzate a sottrarre il processo al giudice naturale (legge Cirami), oppure ad allontanare indefinitamente nel tempo la celebrazione di un dibattimento (lodo Schifani). (altro…)

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