Addio a Dario Fo maestro dei commedianti.
La biografia.
Il nome corto come una sassata Spilungone con i denti da castoro. Ha cambiato il teatro. Il premio Nobel è morto a novant’anni.
È alto come una pertica, magro, coi capelli arruffati color argento, i calzoni di velluto stazzonati, fasciato nel maglione scuro a collo alto che all’inizio degli anni Settanta costituisce la divisa della gente di sinistra (la definizione non è ancora un insulto). Naso da pellicano e denti da castoro conferiscono al suo viso, che altrimenti sarebbe solo bello, qualcosa di irresistibilmente simpatico. Ho sette anni e lui è in piedi nel salotto di casa mia. Affollato: attori e registi bivaccano sui divani, fumano, sgranocchiano olive. Ma solo lui esiste, come fosse illuminato da un riflettore.
Sta recitando, o racconta un aneddoto. Nessuno fiata, tutti sembrano mesmerizzati. Contemporaneamente parla, contraffà voci di uomini e donne, sgranchisce le lunghe gambe, agita le mani, si siede, schizza disegni a matita sul foglio bianco (è in corso una riunione sul futuro del teatro italiano), si rialza, ride. Mi incanta, e insieme mi diverte. Si muove anche se è fermo. Irradia un alone palpabile di buon umore. L’ospite ha un nome breve come una sassata, che non si può dimenticare: è Dario Fo.
È nato sul Lago Maggiore, ma in nulla somiglia all’acqua stagnante: è impetuoso e dinamico come uno scroscio di cascata. Il paesino è San Giano, in provincia di Varese, dove il padre, Felice, era capostazione. Una fermata così insignificante che i macchinisti la sorpassavano senza accorgersene. Scriverà nell’autobiografia della sua giovinezza ( Il paese dei Mezaràt) che «tutto dipende da dove sei nato». Ma in verità ci sono luoghi che esistono solo perché chi ci è passato ha saputo scoprirne la meraviglia. La sua infanzia è scandita dai traslochi decisi dalle Ferrovie dello Stato, che spostano Felice Fo lungo la linea dei binari – ora verso la frontiera svizzera, ora sull’altra riva: anni spensierati, di scherzi e giochi selvaggi coi figli dei contrabbandieri. Per secoli, i Fo sono stati muratori, e il nonno ancora viene chiamato “maister”, maestro. Dario Fo eredita da loro il razionale “pensare meccanico”, dal sarcastico nonno materno detto Bristìn (seme di peperone) la capacità di sparare battute feroci e il gusto del paradosso surreale e della bugia, e dai fabulatori della Valtravaglia la capacità di raccontare fatti ed eventi contemporanei in toni grotteschi e con una lingua fantasiosa, a volte inventata, frutto del crogiolo dei mille dialetti degli immigrati. Fo riconoscerà nei fabulatori all’improvviso del Mezaràt i suoi veri maestri dell’università della comunicazione. Le compagnie di giro, i marionettisti, i saltimbanchi itineranti gli inoculano il gusto del teatro: comincia a esibirsi per i compagni di scuola. A quattordici anni supera la selezione e viene ammesso al Liceo di Brera: deve alzarsi ogni mattina alle cinque e mezza per prendere il treno per Milano. Ma la carrozza diventa il suo primo palcoscenico: intrattiene i viaggiatori raccontando storie. Ogni giorno, per non ripetersi e non annoiarli, deve inventarsi nuovi lazzi. Affronta la guerra con burlesca incoscienza: la Repubblica di Salò intima ai nati del 1926 di presentarsi. Lui, diciottenne, crede di scampare alla Germania presentandosi all’artiglieria contraerea di Varese: lo spediscono ad addestrarsi a Mestre, che viene rasa al suolo dai bombardamenti alleati, e in una caserma di paracadutisti.
Ma la guerra è vera, i rastrellamenti e i morti reali, i torti atroci: Fo il dissacratore riderà del papa, del governo, di tutto, anche di sé. Mai riderà del 1944 e del 1945.
A Brera si è rivelato un pittore di talento (tra i maestri ha avuto Carrà). Ma ormai non gli basta. Prima la radio, poi il teatro lo reclama e se lo prende. Negli anni Cinquanta è rivista, farsa, commedia dell’arte, comica popolare; negli anni Sessanta e Settanta il riso diventa politico. Le sue commedie spernacchiano, deridono, denunciano: il suo nome precede ogni protesta, ogni dissenso. Con Franca Rame, che ha sposato nel 1954, forma un sodalizio definitivo: al tempo in cui la coppia tramonta e viene denunciata come anacronistico relitto borghese, la sua si rinsalda. Il pubblico, che lo adora, lo segue nel trasloco dai teatri alle case del popolo, nelle fabbriche, nelle tende, nelle carceri. Il contatto fisico è viscerale, l’assenza di barriere crea comunione fra attore/ narratore e spettatori. In quegli spazi scomodi, Fo dà tutto – voce, corpo, cuore. Il teatro fabulatorio che va creando prevede e quasi implica il rapporto ravvicinato col cantastorie. Ma è anche frutto di una necessità e di un abuso. Dario Fo deve essere visto dal vero, poiché non è più permesso al pubblico vederlo attraverso il filtro dello schermo. Dal cinema si è eclissato per incompatibilità, ma dalla televisione italiana è stato bandito.
Nel 1962, dopo poche puntate e qualche battuta politica e irriverente satira di troppo, la Rai lo scaccia da Canzonissima, il programma di punta che conduceva con Franca: senza dichiararlo lo censura e lo esilia. Davvero la Rai si comporta con lui come la corte col giullare: il re gli concede di insolentirlo, ma non stabilisce il limite cui può spingersi – per zittirlo quando vuole. E lo fa. Dario Fo peregrina di sala in sala, per decenni: la fama internazionale cresce, diventa un simbolo, perfino un’icona. Ma fino al 1977 i telespettatori non devono saperlo.
Il resto è noto. Negli ultimi quarant’anni, Dario Fo diventa davvero il “maister” – ma non nel senso del nonno muratore e nemmeno nel senso del poeta laureato nel 1997 dal premio Nobel, con stizzito scandalo dei benpensanti. Nel senso dell’artista del Rinascimento, demiurgo che tutto abbraccia. Teatro, politica, pittura, fumetto, romanzo. Diventa perfino professore d’arte – tiene lezioni trascinanti su Giotto, Correggio, Raffaello, Michelangelo, nella cui universalità creatrice di scrittore, poeta, pittore e manipolatore di materia grezza forse si riconosce.
Ma mi piace ricordarlo come la prima volta che mi è apparso, in quel salotto, tanti anni fa.
Articolo intero su La Repubblica del 14/10/2016.
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