OSSERVANDO i marciapiedi di Boston a poche ore dall’esplosione di lunedì – abiti stracciati, macchie di sangue, frammenti di vetro – mi sono trovato a ripensare a una scena simile a cui ho assistito nel 2013 a Tel Aviv.
Un attentatore suicida di Hamas si era fatto saltare in aria a una fermata dell’autobus di fronte alla base militare di Tsrifin, e io, trovandomi per caso nei paraggi, mi recai sul luogo per osservare la scena immediatamente successiva all’esplosione. Come scrissi all’epoca, parti dell’attentatore erano ancora sull’asfalto, compresa una sua gamba irsuta. La scarpa era stata scaraventata via, ma un calzino marrone continuava a coprire con garbo il piede. I soccorritori israeliani portavano via i cadaveri sulle barelle, con calma, in uno strano clima misto di orrore e consuetudine.
Ma ciò che ricordo più di ogni altra cosa è la dichiarazione fatta dal portavoce della polizia, che mi disse: «In due ore avremo ripulito l’intera zona. Prima di domattina la fermata dell’autobus sarà ripristinata.
Non rimarrà traccia dell’accaduto».
Ancora non sappiamo chi sia stato a far detonare le bombe alla Maratona di Boston, o perché lo abbia fatto. Ma dopo l’undici settembre, dopo tutti gli atti di terrorismo che il mondo ha conosciuto nell’ultimo decennio, sappiamo qual è il modo giusto di reagire: lavare i marciapiedi, cancellare il sangue e fare in modo che chiunque abbia compiuto quel gesto sappia che pur avendo vergognosamente mutilato e ucciso alcuni nostri fratelli e nostre sorelle, non lascerà nessuna traccia nella nostra società o nel nostro stile di vita. I terroristi non sono abbastanza forti per riuscirvi, e dobbiamo fare in modo che non vi riescano mai. Solo noi possiamo farlo.
Sistemiamo immediatamente i marciapiedi dunque, ripariamo le finestre, aggiustiamo l’asfalto e non lasciamo tracce – nessun altare, niente fiori, né statue, né targhe. Assicuriamoci che la vita in quel luogo torni quanto prima alla normalità. Sfidiamo i terroristi impedendo loro di lasciare cicatrici sulle nostre strade, e onoriamo i morti santificando i nostri valori, riaffermando la vita e tutto ciò che ci rende più forti e più uniti in quanto nazione.
Dedichiamo un giardino o una scuola a Martin Richard, quel bambino di otto anni che si trovava nei pressi del traguardo e si è lanciato verso il padre Bill per abbracciarlo al suo arrivo, e che poi fiduciosamente è tornato a raggiungere la madre e alla sorella sul marciapiede prima che la bomba li dilaniasse tutti. Devolviamo delle offerte alle organizzazioni benefiche predilette dalle altre vittime. Aiutiamo i feriti a guarire. Ma a Boston, sulla bella Boylston Street solitamente così piena di vita, non lasciamo alcuna testimonianza di quello che il presidente Barack Obama ha definito un «efferato e vigliacco gesto » di terrore.
E già che ci siamo, iniziamo a programmare la prossima Maratona di Boston, da tenere il prima possibile. La vita nelle caverne si addice ai terroristi. Noi americani corriamo allo scoperto per le nostre strade – uomini e donne, giovani e anziani, immigrati e stranieri. Indossiamo pantaloncini, non un’armatura, e ci muoviamo con fiducia, mai con paura, gli occhi sempre fissi sulla meta e mai su fagotti “sospetti” lasciati sui marciapiedi. Talvolta paghiamo per questa ingenuità tutta americana, ma i vantaggi – come quello di vivere in una società aperta – superano immancabilmente i costi.
Naturalmente i terroristi questo lo sanno, e lo sfruttano a proprio vantaggio. Pare che i materiali esplosivi fossero contenuti in pentole a pressione da sei litri nascoste all’interno di borsoni neri lasciati a terra. È questo il tratto caratteristico del terrorismo moderno: trasformare in ordigni degli oggetti di uso comune: la scarpa, lo zainetto, l’automobile, l’aeroplano, il telefonino, il laptop, il telecomando per aprire il garage, i fertilizzanti, la stampante, la pentola a pressione, così che ogni cosa e chiunque possano diventare una fonte di sospetto.
Se glielo permettessimo, potrebbero diventare per la nostra società aperta una minaccia ben più grave di quella mai rappresentata dall’Armata Rossa, perché questo tipo di terrorismo ha come obiettivo l’elemento essenziale di una società aperta: la fiducia, fa intrinsecamente parte di ogni aspetto, ogni edificio, ogni interazione e ogni maratona della nostra società aperta.
I terroristi possono privarcene per un secondo, o anche più, ma non gli permettiamo, né credo mai gli permetteremo, di eroderla alla base. Osservando le immagini del dopo-attentato, notate quante persone, a pochi secondi dall’attacco, si sono precipitate sul luogo dell’esplosione per prestare soccorso – anche se verosimilmente altri ordigni avrebbero potuto scoppiare di lì a poco.
Per fortuna non ci spaventiamo più tanto facilmente, come si sentiva in tutto il Paese già martedì mattina. Abbiamo conosciuto l’undici settembre. All’epoca probabilmente reagimmo in maniera eccessiva, ma non accadrà più. Con le indagini e l’intelligence siamo riusciti a scovare Osama bin Laden, e altrettanto faremo questa volta.
Nel frattempo, però, continuiamo a fare tesoro di quello slogan pubblicitario che faceva capolino da una vetrina di Boylston Street in una foto scattata dopo l’esplosione. L’immagine mostra un maratoneta che fruga tra le borse abbandonate a terra dagli altri corridori dopo l’esplosione. Alle sue spalle, su una vetrina, un poster ci ricorda che “la tua casa dovrebbe
essere un luogo dove puoi risposare tranquillo”.
Solo noi possiamo privarci di questa tranquillità – e non qualche terrorista, con uno spregevole gesto di follia. Abbracciate i vostri bambini stasera, e incoraggiateli a iniziare ad allenarsi già da domani per la prossima maratona. Adesso che ci penso, la prossima dovrà forse essere più lunga, e raggiungere da Boston il luogo dove sorgeva il World Trade Center e poi il Pentagono – per ricordare a noi stessi, e a chiunque ne abbia bisogno, che questa è la nostra casa, e che intendiamo poterci vivere tranquilli, e che non abbiamo paura.
The New York Times (Traduzione di Marzia Porta).
Da La Repubblica del 18/04/2013.
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