A Roma l’autopsia su Regeni: alla testa l’ultimo colpo Fratture e tracce di sevizie su tutto il corpo.
ROMA – Lo hanno ucciso spezzandogli il collo. Lo hanno colpito ripetutamente, accanendosi e fratturando le ossa in tutte le zone del corpo fino a quando a cedere non è stata la vertebra cervicale. Non è chiaro se perché investita da un oggetto contundente o perché divelta con una rotazione improvvisa della testa oltre il suo punto di resistenza. Poco dopo la mezzanotte si solleva l’ultimo velo sull’orrore di cui è stato vittima Giulio Regeni. Perché solo dopo mezzanotte è cominciata, davvero, l’inchiesta sull’omicidio del giovane ricercatore italiano. Dopo oltre cinque ore l’autopsia disposta dalla procura di Roma chiarisce infatti i primi e cruciali punti di un’indagine dove di “congiunto”, allo stato, sembra esserci solo l’enfasi retorica espressa nelle dichiarazioni ufficiali del regime di Al-Sisi. E del resto, che questo primo atto istruttorio sia stato affidato al professor Vittorio Fineschi, direttore del dipartimento di medicina legale de “La Sapienza” e, da dieci anni, coraggioso e ostinato perito di parte nel processo per la morte di Stefano Cucchi, dice molto dell’approccio con cui la Procura abbia deciso di affrontare la vicenda.
Ricostruire con il miglior grado di approssimazione come, quando, e in che modo Giulio sia stato torturato (sul corpo ci sono segni di armi da taglio), in quale lasso di tempo possa essere collocata la sua morte («tra i tre e i quattro giorni successivi al suo sequestro », secondo una prima stima della nostra ambasciata al Cairo dopo un esame visivo dello stato di decomposizione del corpo al momento del suo ritrovamento), se siano state o meno inferte sul cadavere lesioni “post mortem” per dissimulare il movente, diventano infatti le fondamenta di un’inchiesta che, come è apparso chiaro dal primo momento, sconta una collaborazione egiziana fatta di molte parole, evidente melina, sostanziale diffidenza.
Non è un caso che, nelle ultime ventiquattro ore, le prime trascorse dal nostro team di investigatori al Cairo, la collaborazione egiziana non sia andata al di là dell’annuncio del ministro aggiunto della giustizia Shabane el Shami che «la perizia medico-legale egiziana sarà completata entro il mese di febbraio». Che i due “sospetti” fermati nella notte tra giovedì e venerdì siano stati rilasciati. E che, nel loro primo giorno di lavoro, i nostri sei investigatori di Ros (carabinieri) e Sco (polizia), accompagnati dal nostro ambasciatore Maurizio Massari, abbiano letto ancora poche carte dell’indagine egiziana. Il che spiega bene anche il senso delle parole pronunciate ieri dal nostro ministro degli Esteri. «Siamo lontani dalla verità», ha detto Paolo Gentiloni. E lo siamo, va aggiunto, proprio perché l’indagine egiziana — per quanto è stato possibile comprendere sin qui — si è mossa e continua a muoversi in una direzione diametralmente opposta a quella suggerita dalle evidenze agli occhi dei nostri investigatori. Gli egiziani intendono infatti chiudere il caso archiviandolo come vicenda di criminalità comune. E questo mentre ogni indizio in questa storia parla di un movente politico. Quali che siano i due possibili scenari in cui l’omicidio è maturato. Che Giulio sia finito casualmente nel “mazzo” di una delle tante perquisizioni in corso il 25 gennaio. O, al contrario, che chi lo ha sequestrato cercasse proprio lui perché convinto fosse il custode di importanti informazioni sulla rete di oppositori del regime.
Nell’uno e nell’altro caso, è ragionevole ipotizzare, che a condannare a morte Giulio Regeni sia stata quella condizione di studente- ricercatore e insieme attivista politico e collaboratore di un giornale come “il manifesto” che, del tutto normale in Paesi democratici, equivale alla patente di “spia” in un regime come quello egiziano.
Articolo intero su La Repubblica del 07/02/2016.
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