Gli anti-Matteo hanno deciso di muoversi compatti: restano solo se le primarie vengono spostate in estate.
Il fatto da tener presente, tra gli “scissionisti” del Pd, è che hanno cominciato a muoversi tutti insieme e così continueranno a fare anche dopo l’Assemblea nazionale di domenica: se si resta nel partito lo si fa tutti insieme, se si esce pure. E per Matteo Renzi non si tratterebbe più di perdere per strada un pezzo della vecchia “Ditta” diessina, ma una parte non trascurabile del partito: non solo Massimo D’Alema o Pier Luigi Bersani e le loro (piccole) truppe, ma anche un governatore molto amato al Sud come Michele Emiliano, ex lettiani come Francesco Boccia, rimasugli prodiani e civatiani rimasti tra i democratici.
Simbolicamente, sarebbe l’Ulivo che lascia il Partito di Renzi. Meno simbolicamente una forza che punta ad aggregarsi con quanto si muove alla sinistra del Pd: da Giuliano Pisapia a (pezzi di) Sinistra Italiana fino a Possibile di Pippo Civati. Un rassemblement che ha potenzialmente consensi a doppia cifra. E qui la faccenda per Renzi si complica ulteriormente: con l’attuale legge elettorale e in generale con un sistema proporzionale, una lista tra il 10 e il 15% dei voti (Ipr, al momento, la dà all’11), oltre a portar via voti al Pd, eleggerebbe tra 110 e 150 parlamentari. Corollario: essendo gli onorevoli “scissionisti” da riconfermare assai meno, significa avere un bel po’ di poltrone con cui, per così dire, convincere gli indecisi della bontà di questo progetto politico.
Il segretario del Pd ha invece il problema opposto: tra le sue file (franceschiniani e Giovani Turchi inclusi) si ritrova molti più fondoschiena di quante poltrone possa promettere. Questa scarsità dell’offerta, per così dire, Renzi, Dario Franceschini e soci rischiano di pagarla assai cara nei cosiddetti “territori” e/o dentro i gruppi parlamentari in termini di “passaggi” al nemico.
Non tutto, comunque, è già deciso. Analizzando il fronte degli “scissionisti” si scopre che posizioni e stati d’animo sono variegati: Massimo D’Alema è in sostanza già fuori dal partito e, sorprendentemente, anche Pier Luigi Bersani ritiene che l’abbandono del Pd sia inevitabile; in mezzo al guado stanno, invece, il giovane delfino bersaniano Roberto Speranza e i due governatori Enrico Rossi e Michele Emiliano (tutti candidati alla segreteria).
Il trio, a segnalare l’unità degli anti-Renzi, ieri ha diramato un comunicato congiunto: “L’esito della Direzione di lunedì è stato profondamente deludente e ha sancito la trasformazione del Partito democratico nel Partito di Renzi, un partito personale e leaderistico che stravolge l’impianto identitario del Pd e il suo pluralismo”. Per restare dentro al partito, detto in parole povere, questo variegato fronte chiede che le primarie aperte che concludono il Congresso Pd si tengano almeno a fine giugno, inizio luglio: non solo per scongiurare le elezioni anticipate, ma anche in modo da portare gli elettori dem ai gazebo dopo le amministrative, visto il probabile – ennesimo – capitombolo del partito renziano alle urne.
Per allungare i tempi – giusta l’idea cara al ministro Andrea Orlando – bisognerebbe convocare in apertura del Congresso una “Conferenza programmatica”, cioè un’assemblea in cui votare cosa il Pd deve proporre su alcuni grandi temi (lavoro, Europa, etc). Siccome, però, Renzi non ha alcuna voglia di perdere tempo, ha già annunciato una sua versione sbrigativa di Conferenza programmatica (a inizio marzo al Lingotto, Torino, dove nacque il Pd). Palla di nuovo agli scissionisti: gli basta un mese in più? Si accontentano delle primarie a maggio? Risposta: no.
La faccenda è tutta qui. Per Bersani e i suoi questa “mediazione” significa scissione, D’Alema già parla da ex: “I partiti sono diventati tutti delle macchine asfittiche”, i Ds “avevano 650 mila iscritti, poi ci siamo uniti per fare un partito più grande e ora sono 180mila. Qualcosa non ha funzionato. Il contenitore deve avere un buco”. Risultato: “Bisogna avere il coraggio di rimettersi in cammino. Questo è il tema vero. Perchè se si ha il coraggio di farlo, in questo Paese c’è la capacità di reagire”.
Il più dubbioso sulla fuoriuscita dal partito è Michele Emiliano, che non viene dalla sinistra diessina e ritiene di poter battere Renzi al Congresso se avrà il tempo di fare campagna in tutta Italia. Ieri, per vedere che aria tirava, s’è fatto un giro a Roma da candidato in pectore: baci e abbracci per strada; la presentazione del rapporto sulla previdenza; passeggiata in Transatlantico con codazzo di giornalisti. “Stiamo facendo di tutto per tenere unito il partito, ma spetta al leader fare uno sforzo di unità”, salmodiava il presidente della Regione Puglia: “Per ora i treni sono partiti in direzioni opposte. Se le distanze restano siderali, bisognerà capire se continuare questo percorso dentro o fuori”.
C’è un problema: se la sinistra del partito se ne va, che posto avrebbero Emiliano – o Francesco Boccia, il suo principale sponsor in questo momento – in un partito completamente “renzizzato”? Magari molto a malincuore, ma alla fine se ne andranno.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 16/02/2017.
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