È morto ieri a 84 anni Paolo Villaggio, attore, scrittore e sceneggiatore Ha segnato l’immaginario del Paese con la figura del ragionier Ugo.
Com’è umana quella maschera dell’uomo inutile.
L’ITALIA ha perduto uno dei suoi uomini peggiori: Ugo Fantozzi. Vile, sottomesso, brutto, inutile. Ma il ragionier Fantozzi sta per prendersi la più clamorosa e inattesa delle rivincite: sfiderà i secoli. Sopravviverà al suo pubblico, ai suoi stratosferici capi, alle donne che non lo hanno voluto, e al suo fragile, grande autore.
Noi contemporanei fatichiamo a riconoscere un classico, quando vive in mezzo a noi. Perché la familiarità lo banalizza. Ma Fantozzi è destinato a durare, come tutte le grandi maschere che portano la croce per nostro conto e per nostro comodo. Le maschere venute bene, naturalmente: quelle i cui tratti caricaturali sono così indovinati da diventare un paradigma.
Paradigma di che cosa, nel caso di Ugo Fantozzi? Della sfortuna e della sconfitta, ovviamente, come la quasi totalità degli eroi comici, da Paperino a Stanlio e Ollio; ma con una sua specifica e abominevole deformità, che è la condanna al tragico anonimato della società di massa. Ciò che rende fantozziano Fantozzi è la totale, definitiva insignificanza. Nessuna traccia, in lui, dell’energia picaresca di Paperino, o della poeticità bohemienne di Stanlio e Ollio, nessuna qualità che lo redima e lo faccia amare.
Paolo Villaggio, il cui sensazionale cinismo riluceva in ogni intervista, in ogni occasione pubblica, non ha previsto, per il suo omino, alcuna via di scampo. Goffo, panzuto, inetto, un vero e proprio perfezionista della mediocrità. Vittima e al tempo stesso succube complice di un’azienda- carnefice, quintessenza della ferocia gerarchica e della disumanità di una società fatta per la felicità di pochi e irraggiungibili capi, ma retta dalla massa inginocchiata dei subalterni, senza potere e senza identità. Come l’operaio di Chaplin inTempi moderni, ma senza che l’ingranaggio che lo stritola si materializzi, e dunque senza nemmeno l’autodifesa ginnica di Charlot, la possibilità di divincolarsi, di ribellarsi alla Macchina.
È un ingranaggio metafisico, quello che tiene in pugno Fantozzi, è il Sistema come lo si prefigurò e lo si nominò, tentacolare e invincibile, nella ribellione degli anni Sessanta, quando Villaggio era effettivamente impiegato in una grande azienda genovese. (Disse di avere veramente conosciuto Fantozzi, tra quelle scrivanie; e di avergli solamente cambiato il cognome. Una estrema timidezza, l’altra faccia del suo cinismo, gli impediva di prendersi pieno merito del suo grande talento di comico e di scrittore comico, dunque di autore di se stesso: due ruoli coincidenti solo in pochi e grandissimi).
Come se non bastassero tutti gli altri problemi, Fantozzi è una maschera sessuata. A differenza di Paperino, a differenza di Stanlio e Ollio, aggiunge alle sue some quella del desiderio, che una moglie ovviamente orrenda e un’amata ovviamente inviolabile (oltre che simmetricamente orrenda), la signorina Silvani, trasformano in un autentico calvario. Pur essendo un pupazzo, Fantozzi non può godere della sola vera libertà del pupazzo, che è quella di non avere eros. Ce l’ha, nel senso che è in grado di misurarne l’assenza. L’esplosione del desiderio e la liberazione sessuale (alla Deleuze, alla sessantottina) risultano stravolti, ad opera del sessantottino Villaggio e del suo alter ego Ugo Fantozzi, in chiave perfidamente comica. Non come facoltà ma come ulteriore maledizione: bisogna fare all’amore per non sfigurare, per emergere in società, per sembrare all’altezza, e perfino il buffone, tradizionalmente dispensatoda quella incombenza, ne rimane schiacciato. Il sesso diventa per lui una ulteriore pena da aggiungere a quelle della tradizione. Perdente anche in quel campo, quello che più nel profondo tocca l’autostima, e l’illusione della felicità.
Come in tutte le partnership tra creatore e creatura, il vincolo tra Villaggio e Fantozzi risulta al tempo stesso evidente e misterioso. Forse neppure Villaggio sapeva in che misura il personaggio era ricalcato sul proprio sentimento di inadeguatezza. Certo, dell’inadeguatezza, non ne faceva mistero: parlava di se stesso con affettuoso disprezzo e una esilarante assenza di compiacimento, era intelligente e cattivo, voglio dire verbalmente cattivo, incapace di retorica, spietato e probabilmente autopunitivo.
Spiritoso è dire poco, perché in aggiunta alla potentissima vis comica aveva la capacità di far balenare, sempre, quella scintilla di tragico che innerva solo la grande comicità, quella che rimane e ci fa dire “sembri Fantozzi”, o nei momenti di maggiore lucidità “sembro Fantozzi”.
Articolo intero su La Repubblica del 04/07/2017.
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