Il viaggio delle obbligazioni subordinate verso i risparmiatori inizia con i consigli interessati dei funzionari di banca e finisce con l’impossibilità di renderle liquide.
PER UN PUGNO DI EURO I CONFLITTI DI INTERESSE CHI COMPRA E CHI VENDE
MILANO – Il loro nome è Bond. Subordinated bond. Al secolo, le obbligazioni subordinate delle banche. Fino a pochi mesi fa uno degli investimenti preferiti degli italiani, sicuro (si pensava) come i Bot e il lieto fine di 007. Oggi, per molti di loro, un incubo: più di 10mila persone hanno visto andare in fumo i risparmi di una vita, in un poker di salvataggi – Pop. Etruria, CariChieti, Banca Marche e Carife – che ha ridotto a carta straccia i 788 milioni di euro di titoli che avevano in portafoglio. Il loro dramma ha fatto scattare l’allarme rosso in centinaia di migliaia di famiglie: gli acquirenti dei 71 miliardi di strumenti simili “piazzati” sul mercato.
Gente che spesso li ha comprati senza aver la minima idea del loro rischio, malgrado un tortuoso iter d’acquisto tra prospetti chilometrici, documenti informativi (o presunti tali) e consulenti a volte interessati. Ecco le tappe dell’Odissea di queste obbligazioni, dall’emissione fino alle tasche degli italiani, dal boom all’elettrochoc di queste ore.
Il successo dei bond subordinati è figlio di un’esigenza antica come il mercato: incrociare domanda e offerta. La domanda dei risparmiatori, a caccia di guadagni in un mondo dove i BoT rendono il -0,0003%; l’offerta delle banche, a caccia di liquidità in un momento in cui clienti e imprese faticano a pagare le rate di mutui e prestiti. Questi titoli hanno un forte appeal per entrambi: concorrono al patrimonio degli istituti, aiutandoli a rispettare i parametri imposti dalla Bce e piacciono ai risparmiatori per gli interessi. I bond delle società più solide rendono il 2-3% in più dei titoli di stato, quelle in difficoltà il 10%. In soldoni, dai 200 ai mille euro l’anno di maggior guadagno per un investimento di 10mila euro. Le obbligazioni strutturate sono così decollate e il loro viaggio verso le tasche dei risparmiatori è iniziato “tarandone” la taglia. Delle 360 emissioni in circolazione (le hanno fatte tutti, da Intesa e Unicredit fino alle mini- banche di montagna) oltre 150 – calcola Consultique – sono accessibili investendo solo mille euro. Cifra alla portata di quasi chiunque, un centesimo dei 100mila di soglia minima per quelle riservate agli “scafatissimi” investitori istituzionali. Che, guarda caso, sono solo 38.
Confezionato il prodotto, gli italiani si sono messi in coda per comprarli. Chi doveva informarli dei rischi? Ogni settore, sul tema, ha le sue regole. Quelli delle sigarette sono stampati a caratteri cubitali (“Il fumo uccide”) sui pacchetti. Sui detersivi c’è il teschio per evitare che finiscano ai bambini. Le istruzioni per l’uso dei bond strutturati sono più sobriamente affidate a due strumenti: il prospetto imposto da Consob che elenca i pericoli dell’investimento e il documento Mifid dove la firma dell’acquirente certifica che il venditore ha fatto il suo lavoro: tenendo conto di obiettivi e conoscenza dei mercati e offrendogli prodotti in linea con il profilo di rischio personale.
Funziona? Evidentemente non troppo. Il documento Mifid è un tomo di decine di pagine in caratteri-bonsai che il cliente tende a siglare in automatico fidandosi della banca. I prospetti – completi a norma di legge, per carità – elencano una litania di rischi (compreso quello di bail- in) cui manca solo l’ipotesi di invasione di cavallette. E il consulente è spesso in conflitto d’interessi: quasi sempre è un dipendente della banca che ha emesso i titoli subordinati. A volte è incentivato con bonus e premi per venderli. Questo cocktail esplosivo ha attirato tra 2011 e 2012 il 10,8% dei risparmi tricolori verso le obbligazioni bancarie (a Parigi e Londra erano il 2%). Un esodo che allora non è spiaciuto certo a Governo e Banca d’Italia: buona parte della liquidità raccolta degli istituti è servita in quei mesi di spread alle stelle per acquistare Bot e Btp, regalando ossigeno al Tesoro.
Articolo intero su La Repubblica del 12/12/2105.
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